
Per capire i dazi di Trump, basta ascoltare Peter Navarro, consigliere del presidente per commercio e produzione. “I truffatori del commercio estero hanno ridotto l’America a un’industria di assemblaggio a basso costo.” E aggiunge: “Questo minaccia la nostra sicurezza nazionale perché ha eroso la nostra base industriale, inclusa quella della difesa”. I dazi, quindi, sono parte di una battaglia più ampia che si gioca con la Cina per la supremazia tecnologica. In questa sfida Trump vuole riportare l’industria a casa. Ha già aumentato le tariffe medie sulle importazioni americane di circa il doppio rispetto a tutto il suo primo mandato. L’obiettivo è spingere le aziende a trasferire la loro produzione, o almeno una parte, negli Stati Uniti. Il 2 aprile, ribattezzato “Giorno della liberazione”, dovrebbe scattare una nuova ondata di dazi – dovrebbe perché con Donald Trump c’è sempre un margine di incertezza. L’aumento annunciato è del 25% su tutte le auto importate, seguito dall’introduzione di imposte “reciproche”, calibrate dalla Casa Bianca paese per paese, in base alle tariffe e alle politiche fiscali delle varie controparti. Secondo Maros Sefcovic, commissario Ue per il commercio, l’Unione Europea potrebbe essere colpita da un aumento del 20% su tutte le merci.
Ora la domanda è: come reagiranno le aziende? Investiranno di più negli Stati Uniti o cercheranno altri mercati? Per capirlo, il primo passo è guardare a cosa è successo negli ultimi anni in America. Perché alcuni dazi introdotti da Trump nel primo mandato, cioè quelli contro la Cina, sono stati confermati da Joe Biden e poi anche aumentati. Con risultati modesti: nel senso che il deficit commerciale non è diminuito e al contempo non c’è stata una vera rinascita dell’occupazione nella manifattura. I dati dicono che l’industria manifatturiera ha perso peso come quota della forza lavoro americana: valeva il 13% nel 2000 ed è scesa a meno del 10% nel 2023. Biden ha provato a rafforzarla anche con incentivi e sussidi, una politica più mirata che in alcuni settori ha avuto un impatto. L’esempio sono i microchip. Qui una combinazione di incentivi ha spinto diverse grandi aziende, tra cui Tsmc, Intel e Samsung, a progettare nuovi impianti negli Stati Uniti.
Questo abbrivio sembra in parte continuare, e molte aziende si sono fatte avanti dicendo che verseranno miliardi di dollari nell’America di Donald Trump. Apple, i cui prodotti più remunerativi sono assemblati fuori dagli Stati Uniti, ha promesso di investire 500 miliardi di dollari in cinque anni. Un altro annuncio molto d’effetto, sempre 500 miliardi di dollari, è stato quello della joint-venture Stargate, creata OpenAI, SoftBank e Oracle per sviluppare l’intelligenza artificiale, un settore decisivo nella competizione con la Cina. Alla base di queste tecnologie ci sono i microchip, e la taiwanese Tsmc produce i più avanzati al mondo. A marzo ha aumentato il piano di investimenti negli Stati Uniti fino al 2030, portandolo da 60 miliardi a 165 miliardi di dollari. Un pungolo forse è stata la minaccia di un’imposta del 100% sui chip in arrivo proprio da Taiwan. Sempre nel comparto tecnologico, questo mese la tedesca Siemens ha annunciato l’apertura di due nuovi impianti di prodotti elettrici in California e Texas: 900 posti di lavoro, dice l’azienda. In un settore diverso, la logistica, c’è stato un altro annuncio di un gruppo europeo: la francese CMA CGM che investirà in America 20 miliardi di dollari. “Per migliorare l’economia marittima degli Stati Uniti e trasformare l’infrastruttura della supply chain nei prossimi quattro anni”.
È tutto effetto dei dazi e dell’arte di stringere accordi di Trump? In realtà, dicono gli analisti, guardando a cosa implicano i piani aziendali, si scopre che molti di questi investimenti erano già programmati. In parte sono strategie di pubbliche relazioni, cifre ad effetto per ingraziarsi il presidente Trump. Non è detto che saranno spesi proprio tutti soldi annunciati, l’investimento iniziale di Stargate è 100 miliardi di dollari, poi si vedrà. Quando invece si esamina un campione più largo, piccole e medie imprese, i sondaggi dicono che c’è incertezza e che le aziende stanno ferme cercando di capire come andrà l’economia.
Qual è invece la risposta dei produttori di auto? Alcune società si stanno effettivamente muovendo. La coreana Hyundai ha un piano da 21 miliardi di dollari per i prossimi quattro anni: 14mila posti di lavoro a tempo pieno per produrre 1,2 milioni di auto l’anno. Anche Mercedes, che già costruisce Suv in Alabama, ha detto di voler espandere le operazioni negli Usa. Honda sembrava stesse per aprire una nuova fabbrica in Indiana, e Trump lo aveva orgogliosamente comunicato questo mercoledì, ma la società poche ore dopo ha smentito. Dietro questi annunci positivi, la vera certezza per il settore è il rincaro dei prezzi. Questo perché gli Stati Uniti importano quasi la metà delle auto vendute nel mercato domestico e quasi il 60% delle componenti assemblate nelle fabbriche. L’industria dell’auto è globale, basata su accordi di libero scambio e componenti che arrivano da impianti specializzati in ogni parte del mondo.
Il Messico è la prima fonte di importazioni di veicoli per gli Stati Uniti, seguito da Giappone, Corea del Sud, Canada e Germania. Secondo gran parte degli analisti, i dazi scombussoleranno questa catena di fornitura così integrata, facendo crescere i costi. L’effetto contrario a quello sperato da Trump: un calo degli utili, un rallentamento delle vendite, col risultato che la produzione diminuirà e anche i posti di lavoro. Il Wall Street Journal ricorda che il 45% delle importazioni statunitensi è fatto da input usati nella manifatturiera domestica: tassarli significa aumentare i costi di produzione. “Perché i produttori di automobili americani hanno supplicato l’amministrazione di non imporre tariffe sull’acciaio? E perché Alcoa, il più grande produttore di alluminio statunitense, ha chiesto una deroga alle tariffe?” se lo chiede Jared Bernstein, ex presidente Consiglio dei consulenti economici degli Stati Uniti. La risposta non è difficile: i dazi destabilizzano e fanno lievitare i prezzi.
Il mercato americano resta il più ricco del mondo, con quasi il 30% della spesa globale e il più grande stock di investimenti diretti esteri, circa 5mila miliardi di dollari – ricorda l’Economist. Per anni gli Stati Uniti sono stati la locomotiva dell’economia globale. Ma ora una serie di indicatori, soprattutto sondaggi su consumatori e imprese, cominciano a mostrare segni di debolezza. La crescita sta rallentando, forse in modo anche brusco. L’ultimo sondaggio trimestrale della Federal Reserve di Richmond e Atlanta, condotto sui direttori finanziari, dice che un’azienda americana su quattro vuole ridimensionare i piani di assunzione per colpa dei dazi. Larry Summers, l’economista che aveva previsto la fiammata dei prezzi nell’era Biden, teme lo scenario peggiore: stagflazione. Altri non parlano di recessione, ma di un passaggio da leader della crescita mondiale a possibile fanalino di coda già quest’anno.
A fronte dei dazi di Trump le società straniere potrebbero concentrarsi su nuovi mercati. La Cina, il paese più colpito dalle tariffe, lo ha già fatto. Nel 2016 le sue società quotate in borsa ricavavano circa il 50% delle vendite estere negli Stati Uniti; oggi, secondo Morgan Stanley, la quota si è ridotta della metà. Jared Bernstein sostiene che per stimolare la manifattura servono politiche industriali mirate. Cita l’esempio di sussidi pari a centinaia di miliardi di dollari messi in campo da Joe Biden – ma Bernstein è di parte: era funzionario economico dell’ex presidente. In molti però speravano che anche Trump avrebbe scelto una strada diversa, non quella del muro di dazi. In campagna elettorale diceva di voler tagliare le tasse e semplificare le regole della burocrazia.
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