
CRESCE lo smart working internazionale. Riguarda chi lavora dall’estero, in remoto, per aziende con sede in Italia e viceversa e vi fanno ricorso il 29% delle imprese medio-grandi (250-1000 dipendenti), contro il 4% delle Pmi. Numeri in crescita quelli che emergono dalla ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il primo paper scientifico in Italia su questo tema, realizzato con il supporto tecnico di ECA Italia. Il numero crescente di progetti di remote working internazionale conferma il trend di assunzione di talenti stranieri da parte di società italiane prive di filiali nei Paesi di residenza. Si tratta di un nuovo modello di organizzazione internazionale del lavoro che ha trovato una sua consistente espressione dopo la fase pandemica e permette alle direzioni risorse umane di attingere a potenziali candidati sia in Italia che nella Ue, con particolare riguardo per professioni che hanno mostrato elevate capacità di performance attraverso lo smart working, come l’R&D di alcuni settori, il project management o il marketing. A ricorrere allo smart working internazionale sono il 29% delle aziende di medio-grandi dimensioni (250-1.000 dipendenti), contro il 4% delle Pmi, soprattutto dei settori manifatturiero (55%) e dei servizi (38%). Il 57% di queste imprese appartiene a un gruppo internazionale.
Le principali motivazioni che spingono le grandi imprese ad adottare iniziative di smart working internazionale sono strettamente legate alla sfida del talent shortage, confermando come questa pratica possa rappresentare una soluzione efficace per affrontare la carenza di competenze specializzate: infatti, il 45% delle grandi imprese dichiara di ricorrere all’assunzione o al lavoro da remoto stabile in Paesi in cui l’organizzazione non è presente per attrarre profili con competenze tecniche scarsamente reperibili. Il 31% indica la retention di talenti come seconda motivazione principale che guida le imprese verso l’international smart working. Il 17% ritiene il lavoro da remoto all’estero una leva per l’esplorazione e lo scouting di mercati internazionali ove la capogruppo italiana non ha ancora aperto una propria sede. Per le Pmi, invece, il ricorso a questo strumento risiede soprattutto nell’esigenza di espansione in Paesi in cui l’organizzazione sta valutando di aprire altre sedi (30%). Tra le difficoltà maggiori primeggia, sia per le grandi imprese (48%) che per le Pmi (50%), la gestione degli aspetti previdenziali. Per le grandi imprese, la seconda criticità più rilevante è legata alla gestione degli aspetti fiscali; per le Pmi, invece, la gestione degli aspetti previdenziali è seguita dalla complessità delle pratiche burocratiche all’estero (34%).
I principali rischi per le imprese medio-grandi sono la perdita di senso di appartenenza del dipendente e la riduzione dell’engagement (57%), il senso di isolamento (47%) e le difficoltà di integrazione e disallineamento rispetto ai valori aziendali (40%). Nelle Pmi il rischio maggiore è rappresentato dalla gestione in sicurezza dei dati, indicato dal 46% del campione, seguito dalla difficoltà di integrazione con il team di lavoro per il 31%.
“Questo modello organizzativo non ha ancora conseguito una sua maturità in Italia e in generale nell’Ue – spiega Andrea Benigni (nella foto), ceo di ECA Italia – Tuttavia, dalla ricerca del Politecnico di Milano emerge che le aziende di medio grandi dimensioni hanno iniziato a mettere a fuoco questo tipo di opportunità e l’idea di gestire talenti remoti internazionali non è più un concetto astratto”.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità *****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link