
Costi bassi, modernità prima impensabile, prossimità geografica ma anche di caratteri. Tra il nostro Paese e la Terra delle aquile i rapporti sono sempre più stretti. Tanto che per alcuni è la «nuova Lombardia».
Lombardia? No, Albania. Sembra una provocazione, invece è la fotografia di una migrazione lenta e progressiva che parte dall’operosa Brianza come dal misterioso distretto tessile di Prato, invogliando centinaia di imprenditori italiani a spostare produzione, know-how e in alcuni casi intere aziende oltre l’Adriatico. A spingere l’esodo è una combinazione di fattori che rendono l’ex Paese comunista un’oasi per gli affari: tassazione agevolata, costo del lavoro quasi dimezzato, burocrazia semplificata e una lingua – il nostro italiano – parlata fluentemente da buona parte della popolazione. A fare un ritratto di quanto sta accadendo con precisione sono i dati ufficiali, che si ottengono analizzando quelli di entrambi i governi, e che mostrano come nel 2024 l’Italia si sia confermata il primo partner commerciale della Shqipëri, Terra delle aquile.
Il 27,8 per cento del totale dell’interscambio albanese con il resto del mondo – che equivale a 3,6 miliardi di euro su un totale di 12,9 miliardi – si è infatti rivelato destinato al nostro Paese. E oggi un quinto delle importazioni in Albania (21,2 per cento) provengono dall’Italia. Si tratta principalmente di macchinari, attrezzature e pezzi di ricambio (23,3 per cento), ma anche prodotti tessili e calzature (18,9 per cento). E, ovviamente, generi alimentari (16,9 per cento). Anche l’Italia – a evidenziare un rapporto equo e bilanciato – importa prevalentemente prodotti tessili e calzature (48,3 per cento del totale), materiali da costruzione e metalli (13 per cento), ma anche macchinari, attrezzature e pezzi di ricambio (11,1 per cento). Un focus interessante è poi quello che si dipana analizzando la presenza albanese in Italia – secondo gli ultimi dati disponibili i cittadini albanesi in Italia sono quasi 500 mila, principalmente occupati nel settore industriale e dei servizi – e quella italiana in Albania. I nostri connazionali infatti scelgono di attraversare l’Adriatico per fondare imprese. E sono ben 3.026 le società a partecipazione italiana presenti sul territorio albanese (fonte: Registro delle imprese 2023). Imprese che rappresentano il 43,6 per cento delle attività straniere attive in Albania e che fanno del Bel Paese il primo per numero di aziende. Sul punto è interessante notare come ben 1.951 attività siano quelle a capitale interamente italiano, e oltre 700 imprese (25 per cento) svolgano mansioni principalmente manifatturiere e commerciali, mentre le altre società siano attività di servizi. La capacità di attrarre capitali dell’Albania è poi in forte ascesa. Un esempio? Solo nel 2023 qui hanno aperto 386 società (9,36 per cento del totale delle neonate).
Diventa allora lecito chiedersi se l’Albania sia una opportunità di business a lungo termine. Sul punto ha le idee molto chiare la presidente della Camera di commercio italiana , fondata nel 1996 e riconosciuta dal governo solo 15 anni dopo. Si tratta di Maria Cristina Busi Ferruzzi, anche presidente di Confindustria Catania e amministratore delegato Coca-Cola Bottling Albania, che le è valso l’appellativo di «Lady Coca-Cola». «Attraverso una nuova narrazione imprenditoriale, questo Paese sta riscrivendo il presente, proiettandosi verso il futuro con grande slancio», ama ripetere Ferruzzi, che è anche tra i fondatori di Aiioa, Associazione imprenditori italiani operanti in Albania, e della stessa Confindustria Albania. Tra gli obiettivi strategici spesso evidenziati ci sono gli elementi che possono costruire un network commerciale, finanziario e sociale fra i due Paesi, attraverso la promozione di missioni, incontri bilaterali e formazione.
Di certo il mercato albanese – meno burocratizzato e con una pressione fiscale inferiore – a molti imprenditori di casa nostra ricorda l’Italia degli anni Ottanta: uno slancio imprenditoriale diffuso, giovani motivati, vincoli sindacali meno stringenti, una forte fiducia nella piccola impresa. Il «rischio» è che l’Albania si riveli una seconda Romania dei tempi d’oro (quando c’era la corsa alla delocalizzazione)? È inutile negare questa eventualità. Una «radiografia» del Paese rivela come qui lo stipendio minimo sia poco più di 350 euro (recentemente aggiornato) e quello medio arrivi a 850 euro, cui corrisponde un potenziale d’acquisto alto (basti sapere che per una cena in trattoria il conto si aggira sui sette euro a testa).
C’è poi, come detto, una tassazione molto competitiva sulle persone fisiche (dal 13 al 23 per cento) e ancora di più sulle società (che fino a 135 mila euro di fatturato sono esenti, e al di sopra pagano dal 5 per cento al 15 per cento). Tutti elementi che rendono l’Albania appetibile anche per i professionisti italiani che sempre più spesso scelgono di venire a lavorare qui per periodi limitati, magari per una settimana al mese, e portare le loro capacità – di dentisti, chirurghi, ingegneri o architetti – godendo dei benefici fiscali.
Non mancano le aziende che scelgono di delocalizzare per creare manufatti – soprattutto in pelle – che poi diventeranno made in Italy una volta scesi dal traghetto (i costi di spedizione sono infatti irrisori se paragonati a quelli di Cina o di altri Paesi non Ue). In questo caso più che di espansione, è forse lecito parlare di sopravvivenza economica.
Ma il quadro generale attrae anche diverse eccellenze. Che magari in Italia (fino a oggi) non hanno trovato fortuna. Fra queste c’è Silvia Minotti, esperta nel settore finanziario, che ha avviato in Albania un’impresa dedicata al riciclaggio di rifiuti di alta qualità con la sua Green Recycling fondata nel 2013. Minotti ha conosciuto l’Albania quando lavorava come funzionario della Banca Mondiale a Washington e, dopo una prima visita nel Duemila, ha deciso di imbarcarsi per attraversare l’Adriatico – è infatti nata a Cervia – e così diventare un’apripista nel campo della raccolta e del recupero di rifiuti in Albania. «Perché» spiega la sua scelta Minotti, «è culturalmente e geograficamente vicina all’Italia. E soprattutto perché l’Albania ha scelto una via di sviluppo consona ai principi e valori della nostra vecchia e comunque bellissima Europa».
A fare da ponte fra il nostro Paese e quello delle aquile è invece Pllumb Marinaj, albanese di nascita che dopo un lungo periodo in Italia è tornato a Tirana per fondare un’azienda che si occupa di intermediazione e consulenza aziendale, facilitando le relazioni commerciali tra i due Paesi. «Dopo essere arrivato a bordo di un traghetto in Puglia» racconta «ho cercato la mia strada in Italia e l’ho ritrovata qua dove sono le mie origini».
Passeggiando per le strade della capitale Tirana e addentrandosi nel quartiere Blloku, tra le sue boutique alla moda, i ristoranti eleganti e una vita notturna instancabile, non si rimpiange la vivacità milanese dei Navigli o di Brera. E non è un fenomeno temporaneo: ormai Tirana è molto più che la città della manodopera a basso costo. È diventata un hub per il business creativo, dove anche i giovani italiani iniziano a cercare opportunità. In fondo, se una volta Milano guardava a Londra, oggi è Tirana a guardare Milano. E a imitarla. Ma con meno tasse e (forse) più voglia di fare.
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