15 Aprile 2025
Acquisti al top di oro, dollaro debole. «Banche centrali e investitori dubitano del biglietto verde»


A gennaio sono state comprate 117 tonnellate di oro (esclusa la Fed), contro una media annua di 17. Ancora più anomalo: lo fanno anche gli istituzionali americani. «Preferire l’oro fisico, con costi di stoccaggio e minore liquidità, suggerisce che inizino a dubitare sul futuro del dollaro»

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Dietro la guerra commerciale scatenata dal presidente americano Donald Trump, a cui la Cina di Xi Jinping sembra rispondere colpo su colpo, c’è un nuovo conflitto. Ma adesso lo scontro è sulle valute. Ne è convinto Pierre-Antoine Dusoulier, fondatore e ceo globale di iBanFirst la fintech dei pagamenti che aiuta le imprese nella gestione di incassi e scambi valutari, con la copertura dal rischio cambi.

In quale scenario stiamo entrando ?
«Il tema dei dazi, che scuote i mercati globali, è solo l’anticipazione di un piano più ampio per ripristinare la competitività industriale. Al centro c’è la volontà ferrea di indebolire un dollaro considerato sopravvalutato, ritenuto la causa principale delle difficoltà economiche statunitensi. Una questione che si trascina da 80 anni, da quando gli Accordi di Bretton Woods hanno consacrato il dollaro come valuta di riserva mondiale. L’introduzione dell’euro nel 1999 e la progressiva internazionalizzazione dello yuan cinese negli ultimi quindici anni non hanno cambiato la situazione. Il biglietto verde sembrava destinato a dominare per sempre il panorama monetario globale. Dalla fine di gennaio, si sta facendo sempre più concreta l’ipotesi di nuovi accordi monetari, i cosiddetti Accordi di Mar-a-Lago in riferimento agli Accordi del Plaza, che negli anni ’80 permisero una svalutazione del 50% del dollaro, aiutando gli Stati Uniti a riequilibrare il loro deficit commerciale».




















































Troppo sopravvalutato

Quali sono le basi teoriche di questo progetto?
«In un documento pubblicato nel novembre 2024, Stephen Miran, allora analista per un hedge fund e oggi presidente del Consiglio Economico della Casa Bianca, delinea una roadmap per la ristrutturazione del sistema economico internazionale. La sua tesi si basa su due presupposti. Primo: la sopravvalutazione del dollaro. Una tesi supportata dai numeri. Secondo i nostri calcoli, il dollaro statunitense è sopravvalutato del 37% rispetto allo yen, del 28% rispetto allo yuan, del 24% rispetto al dollaro australiano, del 20% rispetto al dollaro taiwanese e del 10% rispetto all’euro. Secondo: la convinzione che altri Paesi debbano contribuire maggiormente al costo del deficit americano. Miran propone, ad esempio, la conversione dei titoli del Tesoro in obbligazioni a lungo termine, a basso rendimento e di durata illimitata. Collegando le interdipendenze commerciali, i flussi di capitale e la potenza militare statunitense, promuove un nuovo sistema egemonico a guida USA, che permetterebbe a Washington di svalutare il dollaro a piacimento, se ritenuto conveniente».

E in questo contesto si inserisce la linea politica sui dazi
«Si, come risposta a un’“ingiustizia” percepita e ulteriore pedina in una gigantesca partita a scacchi contro una presunta cospirazione del commercio globale. Secondo questa visione, è proprio lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale a essere alla radice dei problemi economici statunitensi. E qui nasce il problema.

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Cicale e formiche

Come mai?
«Perché l’economia statunitense affronta, senza dubbio, difficoltà strutturali. L’industria ha perso terreno: dal 22% della produzione mondiale nel 2004 al 15% attuale, mentre la Cina ha ormai una quota doppia. Tuttavia, anche l’Europa – priva dello status di valuta di riserva – ha subito un destino analogo. La delocalizzazione non è stata causata dalla forza del dollaro o da presunte pratiche scorrette delle economie asiatiche, ma dal fatto che i salari in quei Paesi restano una frazione di quelli statunitensi. Anche con dazi al 50%, è improbabile che Apple riporti la produzione degli iPhone negli Usa. Il deficit commerciale statunitense è principalmente il risultato di uno squilibrio sistemico tra risparmio e consumo. Gli Usa hanno accumulato debito pubblico e privato per sostenere i consumi, mentre Paesi come Germania e Cina li hanno finanziati attraverso il risparmio. La cicala accusa la formica, dimenticando che, nel breve periodo, è impossibile tornare a un’era del Made in America».

Invece è quello a cui punta il presidente Trump.
«Il mercato del lavoro americano è già al massimo della capacità, con un tasso di disoccupazione attorno al 4,5%. Gran parte della capacità produttiva va ricostruita. Ancora più grave: una dose eccessiva di protezionismo potrebbe rivelarsi fatale proprio per il “lavoratore medio” che l’amministrazione dice di voler difendere. Quel lavoratore, negli ultimi anni, ha sofferto l’inflazione, parzialmente compensata dalla crescita e dai guadagni salariali. Ora incombe lo spettro della stagflazione, con il rischio di un impoverimento accelerato. La fine del “fardello americano” rappresentato dal dollaro forte, secondo l’amministrazione Trump, potrebbe davvero realizzarsi, ma non necessariamente a vantaggio degli Stati Uniti».

Tutto d’oro

Quali scenari futuri si aspetta?
«Sebbene il dollaro mantenga ancora una posizione egemonica nel commercio internazionale, l’aumento degli acquisti d’oro da parte delle banche centrali è un segnale preoccupante. A gennaio, sono state acquistate 117 tonnellate di oro (escludendo la Federal Reserve), contro una media annua di 17 tonnellate. Ancora più anomalo: anche gli investitori istituzionali statunitensi hanno iniziato a comprare oro fisico in massa dall’inizio dell’anno. Preferire l’oro fisico – con costi di stoccaggio e minore liquidità – suggerisce che inizino a dubitare del futuro del dollaro. Questo rischio di de-dollarizzazione, ancora agli albori, è già accompagnato da forti turbolenze sul fronte euro-dollaro e, più in generale, su tutte le valute, costringendo le imprese ad aumentare le coperture sui cambi. Il dollaro non è più un rifugio sicuro. Non c’è però nessun’altra valuta pronta a sostituirlo. La recessione è all’orizzonte. E ogni giorno che passa lo conferma: non può esserci un’“America Great Again” senza un “International Great Again».


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