
La crescita si abbassa allo 0,6 per cento, il deficit cala al 3,3 per cento. Ma oltre i conti pubblici in ordine, c’è il vuoto. Chissà se almeno le audizioni in programma nelle Commissioni bilancio di Camera e Senato riusciranno a riportare nella realtà le cifre tecniche del Documento di finanza pubblica, Dfp – quello che prima si chiamava Def – approvato dal governo lo scorso 9 aprile. Proprio negli stessi minuti in cui Donald Trump sospendeva i dazi.
Il 16 aprile sono attesi i sindacati e alcune associazioni di categoria. Il 17 aprile ci saranno, tra gli altri, Bankitalia, Confindustria e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
Giorgetti ha ammesso: «Già se riesco ad azzeccare il 2025 sono un mago». E in effetti il governo sembra navigare a vista senza prendere decisioni, presentando un Dfp del tutto aleatorio. Ma, al di là dei cambi repentini da Washington, il problema è che nel nuovo Dfp non solo non si trova un quadro programmatico di medio periodo – che pure sarebbe la caratteristica delle nuove regole europee di bilancio – ma si ignorano anche tutte le emergenze che il Paese deve affrontare. Senza indicare nemmeno, quindi, le scelte politiche per farvi fronte.
Nel documento non c’è nessun riferimento alle spese per la difesa. Il testo non dice se il governo vuole fare ricorso o no alle clausole europee per scorporarle dal calcolo del decifit. L’ipotesi più probabile è che alle Camere, quando sarà votata la risoluzione finale, verrà chiesto di approvare anche uno scostamento di bilancio utilizzando la deroga ai vincoli europei, che può essere invocata entro fine aprile. La clausola è stata definita a Bruxelles per l’1,5 per cento del Pil, che per l’Italia varrebbe circa 33 miliardi. Una cifra non facile da gestire per un Paese come l’Italia in cui il debito continua a salire e la crescita si riduce.
Il Pil di quest’anno, come indicato nel Dfp, scende allo 0,6 per cento, dimezzando le stime fatte nel Piano strutturale di bilancio di pochi mesi fa. Poi si andrà allo 0,8 per cento nel 2026 e 2027. Ma lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio, che ha confermato la stima, ha spiegato che il rischio che l’economia vada peggio di così è forte e che la crescita è appesa al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le previsioni del governo, ha scritto l’Upb, sono validate «assumendo la piena e tempestiva realizzazione dei progetti del Pnrr e le ipotesi del Mef sul contesto internazionale».
Eppure nel Dfp, come ha fatto notare l’economista Marco Leonardi, non è chiarito cosa bisognerà fare con i 25 miliardi ancora non spesi tra il Pnrr e i fondi di coesione europei. Il dossier difesa finirà inevitabilmente per intrecciarsi anche con la rimodulazione del piano che l’Italia dovrebbe inviare ufficialmente a maggio. Giorgetti punta a prorogare la scadenza, in qualsiasi modo lo si faccia. «A me interessa che alcuni obiettivi si possano contabilizzare a bilancio nel 2027 o nel 2028, questo ci aiuterebbe moltissimo in termini ragioneristici sia per il finanziamento della difesa che per gli indennizzi ai settori danneggiati dai dazi», ha detto il ministro. Ma oltre il compitino sugli aspetti contabili, nel Dfp non si va.
L’altro grande assente riguarda poi forse la questione più delicata per la tenuta dei conti di un Paese che non fa figli e che invecchia: ovvero l’adeguamento automatico dell’età della pensione, una misura che da sola vale 4 miliardi. Il governo, per il momento, è pronto a mettere l’ennesima pezza per evitare l’aumento di tre mesi previsto da gennaio 2027 per via della crescita della speranza di vita. Il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon ha già detto che l’aumento sarà sospeso e che servono «solo» 200 milioni. Il veicolo per farlo potrebbe essere un nuovo “decreto Primo maggio”, una sorta di pacchetto lavoro a effetto simile a quello approvato l’anno scorso. M così facendo ancora una volta la decisione viene spostata in avanti.
E poi c’è la questione della pressione fiscale. Il Dfp dice che la spesa pubblica è calata, grazie al taglio del Superbonus, mentre le entrate per lo Stato sono aumentate del 6,2 per cento. Un aumento dovuto sia alla crescita dell’occupazione sia a quella dei salari, che nel 2024 sono saliti di quasi il 4 per cento superando per la prima volta l’inflazione ma senza recuperare quella precedente (i salari reali italiani sono ancora più bassi del 6 per cento rispetto al 2019). Nel Dfp – fa notare Marco Leonardi – si legge che il Pil reale per ora lavorata nel 2024 diminuisce dell’1,4 per cento, nonostante il Pil reale in termini aggregati aumenti dello 0,7 per cento. Quindi la nuova occupazione non può aver contribuito ad aumentare la pressione fiscale. L’ipotesi più ragionevole è che l’aumento delle entrate che sia legato ai rinnovi contrattuali del 2024, che hanno comportato un aumento del salario ma anche un aumento della quota prelevata dallo Stato in termini di tasse.
È il cosiddetto fiscal drag, drenaggio fiscale. Gli aumenti dei rinnovi contrattuali servivano a recuperare in parte il potere d’acquisto perso dai lavoratori nei momenti di alta inflazione. Ma il reddito reale è rimasto costante e quindi in teoria non dovrebbe esserci un aumento della pressione fiscale. Le maggiori entrate dello Stato dovrebbero essere sterilizzate con uno slittamento in avanti dei limiti degli scaglioni attuali dell’Irpef. Ma se tutto resta com’è, invece, saranno i lavoratori dipendenti e i pensionati, con le loro tasse, a ridurre silenziosamente il deficit italiani. Mentre il tabù leghista dell’aumento dell’età pensionabile viene bloccato.
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