Tentazione Trumpnomics: autoridursi il debito con l’estero


Da giorni, nei salotti finanziari americani, gira con insistenza una voce: Trump vorrebbe ristrutturare una parte del debito Usa, costringendo alcuni creditori esteri a scambiare i titoli in loro possesso con obbligazioni a «lunghissimo termine». L’agenzia Bloomberg cita un incontro organizzato dalla società di consulenza Bianco Research con i propri clienti sul punto.

Non sarebbe una «normale» – si fa per dire, visto che le ristrutturazioni sono pur sempre una forma di insolvenza – operazione di swap, come altre ne abbiamo viste in passato, dalla Grecia all’Argentina, ma quasi una cancellazione unilaterale dei propri debiti. Non ti nego i soldi, ma ti pago tra cent’anni. Trump come Edoardo III d’Inghilterra, insomma, che nel 1345 annullò il debito che aveva contratto con i banchieri Bardi e Peruzzi di Firenze per finanziare le sue guerre contro la Francia, provocando il primo grande crack finanziario della storia.

Ipotesi fantastiche? Mica tanto, se l’ipotesi viene messa in relazione con l’ossessione trumpiana di riequilibrare i conti con l’estero e di rilanciare, anzitutto a danno dell’Europa e della Cina, l’industria e le esportazioni del proprio paese. Dazi, bilancia commerciale, debito pubblico e dollaro: è su questo asse che si snoda la politica neo-imperiale del «Make America Great Again».

Ma andiamo con ordine. Fino a tutti gli anni Sessanta la bilancia commerciale degli Stati Uniti è stata in attivo; poi, a partire dai Settanta, il trend si è invertito. E dagli anni Novanta in poi lo squilibrio col resto del mondo è diventato addirittura strutturale.

Attualmente gli Usa hanno un deficit con la Cina pari a 273 miliardi di dollari, di 236 miliardi con l’Unione europea (44 miliardi con l’Italia), di 172 miliardi con il Messico e di 63 con il Canada. Significa che negli ultimi decenni hanno svolto la funzione di «compratori di ultima istanza» per le merci provenienti dall’Europa, dall’Asia e dai paesi vicini. Grazie alla supremazia del biglietto verde. Merci comprate in dollari, che ritornano negli States sotto forma di investimenti in asset venduti a Wall Street e di sottoscrizione di titoli del Tesoro americano (così gli Stati Uniti spendono e consumano più di quanto producono).

Ma non è finita qui. Una parte di queste risorse torna di nuovo all’estero, e in Europa in particolare, come partecipazione al capitale di imprese nel settore manifatturiero, energetico, militare. Una divisione dei ruoli: le leve della finanza in mano a Washington, la produzione materiale di beni distribuita tra Cina, Europa, altri paesi asiatici.

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

Tutto magnifico (più per chi vive di plusvalenze che per la classe operaia), finché l’ascesa, industriale e finanziaria, di nuove potenze, Cina in primis, non ha cominciato a rappresentare una minaccia per l’ordine mondiale costruito su tali fondamenta (pesano le prove di de-dollarizzazione degli scambi).

Il debito, quindi. A gennaio di quest’anno il suo ammontare era pari 36,2 trilioni di dollari (36.220.207 milioni per l’esattezza), tre volte tanto il debito aggregato dei paesi dell’eurozona. Di questi, 9.000 miliardi sono in mano a paesi stranieri, tra i quali spiccano Giappone e Cina: il primo con 1.100 miliardi di dollari, la seconda con oltre 800 miliardi. (ultimamente è cresciuta però l’esposizione dei paesi europei).

Per avere un’idea del ritmo di crescita di questo debito, basta dire invece che dieci anni fa esso era pari a 18,2 trilioni di dollari, la metà di quanto vale oggi. Ecco allora l’idea di Trump di sovvertire il sistema (si parla di «Mar-a-Lago Accord», riecheggiando gli «Accordi di Bretton Woods» del 1944), riducendo l’esposizione con l’estero, aumentando le esportazioni, riducendo l’import, imponendo agli «alleati» di comprare dagli Usa più armi, più gas e petrolio. C’è solo un problema: il dollaro troppo forte, stante il suo status di principale moneta di riserva.

Rinunciare all’egemonia del biglietto verde? I costi sarebbero maggiori dei benefici. Meglio aggiungere alla guerra dei dazi quella dei tassi di cambio, acquistando moneta estera per farne lievitare il prezzo rispetto al dollaro.

Siamo solo all’inizio e non è facile immaginare l’impatto che queste misure potranno avere sulla stabilità finanziaria globale. Ma una cosa è certa: chi ha da perdere molto in questa situazione è l’Europa, costretta a finanziare il risanamento dei conti americani con la perdita di quote di mercato per le proprie produzioni (deindustrializzazione), con alti prezzi delle materie prime energetiche, con l’aumento della spesa per la difesa, persino col deterioramento dei propri crediti.



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