Foto del Cascà in copertina: @Sardegna Country
Ritratto in copertina: Sagra del Pilau
La storia del cous cous fra Tunisia, Liguria e Sardegna
Palline di semola, saporite e con una consistenza deliziosa al palato: è questo il couscous, una pasta semplice da fare, adattabile a molteplici condimenti, che ha saputo perciò inserirsi con successo in molte culture alimentari, anche d’Europa, sulla sponda settentrionale del Mediterraneo.
Parliamo in particolare della cultura gastronomica di Carloforte (ad oggi fra i 5000 e 6000 abitanti) e Calasetta (3000), due splendide località di mare, rispettivamente sull’Isola di San Pietro e sull’isola di Sant’Antioco, nel sud ovest della Sardegna. Qui, nel Sulcis, queste due isolette sono meta di turismo tutto l’anno, grazie al clima mite, alle eccellenze gastronomiche e ad un vitigno straordinario, il Carignano, che spesso si sviluppa a piede franco e dona vini rossi brillanti e intensi.
Carloforte e Calasetta furono fondate nel Settecento da esuli genovesi, anzi di Pegli, quartiere di Genova, che provenivano da Tabarka, città della Tunisia. Per farla breve vi si erano stabiliti due secoli prima, per commerciare e pescare corallo; nel Settecento i rapporti con i tunisini si erano deteriorati così rientrarono nel regno di Sardegna, e si stabilirono a ondate successive, fondando prima Carloforte (1738) nella desertica isola di San Pietro, e poi Calasetta (1770) a Sant’Antioco. Da allora questi pescatori e contadini cocciuti e resilienti non hanno mai abbandonato la lingua genovese, le proprie tradizioni e la propria cucina, che è una interessante contaminazione tra cucina genovese, cucina sarda e appunto cucina tunisina.
Il cascà carlofortino, un cous cous vegetale: com’è e come si fa
E qui entra in gioco il cascà carlofortino appunto, piatto identitario, che ogni anno si celebra con un bel festival gastronomico, che è il couscous arabo, interpretato secondo la sensibilità di questa popolazione di liguri trapiantati in Sardegna. Si dice che i carlofortini siano bravissimi contadini quanto pescatori. Il cascà, citato già in un ricettario del Touring Club Italiano del 1931, si fa con le verdure dell’orto, seguendo le stagioni; d’inverno è ricco di cavoli e verdure in foglia, in primavera ed estate si colora di favette, piselli, in estate di melanzane e peperoni. Era un piatto unico, quotidiano, che nutriva con poca spesa dato che praticamente tutti i tabarchini hanno un orto in paese.
Alcuni vi aggiungono ceci, altri carne, le varianti sono tante quante le famiglie di questo borgo marinaro, dove anche i bambini parlano una sorta di genovese antico, e conoscono filastrocche e canzoncine ormai dimenticate nella madrepatria. Nella vicina Calasetta si fa invece un cascà con pesci e crostacei, chiamato pilau (ve lo raccontiamo di seguito), anch’esso celebrato in una sagra annuale che attira migliaia di visitatori.
La preparazione del cascà consiste nel porre la semola su di un piano liscio (o una grande scodella di terracotta), versare a pioggia dell’acqua tiepida ed esercitare con la mano un’azione rotatoria che fa agglomerare la semola in piccole palline, azione detta “arundià” ossia arrotondare, dare la forma della pallina. Dopo la formazione del cascà questo viene lasciato riposare prima di essere stufato e poi condito con verdure e legumi di stagione precedentemente soffritte e poi stufate con spezie a piacere.
Pilau: il cous cous di Calasetta con il pesce
Il pilaf o pilau originariamente era una preparazione di origine orientale a base di riso, arricchita con carni, pesce o verdure. Fonti storiche indicano che “pilaf” designa il metodo di cottura più che un ingrediente, poiché il riso, dopo essere stato rosolato brevemente, assorbiva tutta l’acqua di cottura. Nella cucina di Calasetta, delizioso borgo le cui case sono dipinte di bianco e d’azzurro, indica una preparazione a base di couscous (detto scucuzù) con un gustoso sugo rosso con crostacei e/o pesci.
Le massaie consigliano, dopo aver soffritto aglio e cipolla e pomodori freschi (o i pelati o la passata), di aggiungere in alternativa alla granceola e alle cicale anche altri crostacei o pesciolini, secondo le disponibilità al banco del pescivendolo. Originariamente anche il pilau, come il cascà, era un piatto povero, un modo per consumare senza sprechi ciò che i pescatori calasettani portavano a casa. “Cucina circolare” ante litteram, quando ecologia e sostenibilità erano una necessità per sbarcare il lunario.
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