Fare impresa non è stato un gioco da ragazzi per Raffaele Mazzeo, l’uomo dei giocattoli. Lo storico marchio del made in Italy, dieci punti vendita distribuiti nell’arco di duecento chilometri a presidiare strategicamente il mercato in Capitanata, Molise e Abruzzo, ha sviluppato la sua impresa nel corso degli ultimi trenta-quarant’anni, partendo dai mercatini, dalla vendita ambulante. Un self made-man che ha ereditato il lavoro del papà sviluppandolo come meglio non avrebbe potuto. L’impresa Mazzeo è sbocciata nelle forme che vediamo oggi negli anni Settanta ed ha proseguito il suo inarrestabile percorso con la graduale determinazione del suo “nuovo” fondatore. Oggi quella di Raffaele Mazzeo è una solida realtà aziendale costruita intorno alla storica casa-madre sanseverese sulla via per Foggia e che vanta forti radici nel tessuto imprenditoriale locale attraverso i collegamenti commerciali con alcuni dei principali marchi storici del territorio quali il colosso Sarni, i maestri dello spumante D’Araprì. Il gruppo Mazzeo – 30 milioni di fatturato e 80 dipendenti fissi – oggi rappresenta uno dei più importanti riferimenti dell’imprenditoria foggiana e pugliese. Ed ha già varcato le soglie della terza generazione: oggi i tre figli del patron Raffaele sono tutti impegnati all’interno dell’azienda con incarichi operativi. La nostra intervista è stata registrata nei giorni dell’arrivo delle fornitore per gli addobbi natalizi, un business irrinunciabile per chi si occupa di commercio figurarsi poi per chi vende giocattoli. Mazzeo ha risposto alle nostre domande tra gli allestimenti degli show rooms, sempre coadiuvato dai suoi collaboratori. E’ in questi periodi che viene inoltre prontamente alzato il numero degli addetti alla vendita per il periodo natalizio in tutti i dieci negozi, ingaggiando un’altra ventina di venditori con contratto a termine.
«Abbiamo un sogno, che questa provincia diventi finalmente un punto di grande snodo economico e commerciale per tutto il Mezzogiorno. Ne abbiamo le possibilità e la vocazione imprenditoriale – dice in esclusiva a l’Immediato Raffaele Mazzeo – ma per far questo è necessario che sia Foggia innanzitutto a cambiare marcia, poichè il nostro capoluogo di provincia resta la stella polare per tutti noi ed a volte ci sentiamo un po’ orfani da questo punto di vista».
Signor Mazzeo, forse si è perso il gusto per l’avventura (ragionata) d’impresa. La sua attività, ereditata da papà, comincia su una bancarella e dalla voglia di sfondare.
«Ero un venditore ambulante, a diciott’anni ho intrapreso l’attività di mio padre con l’intento di proseguirne il percorso e di migliorarlo per quelle che erano al tempo le mie possibilità. Siamo ai primi degli anni ’70, ero dunque anch’io un venditore ambulante di giocattoli. Facevo i mercati all’ingrosso a Foggia, ero una presenza fissa nell’area mercatale del quartiere Cep. La prima svolta avviene nel 1978 quando riuscii ad aprire un piccolo magazzino in viale Giuseppe Di Vittorio a San Severo, grazie al quale avrei potuto meglio assecondare le richieste degli acquirenti sia al dettaglio che all’ingrosso. Provai così ad allargare a base di vendita. Investii i miei primi guadagni per provare a sondare un mercato che intuivo già allora fosse molto promettente. Ma ci voleva anche un pizzico di sana incoscienza. E’ su questi presupposti che nasce l’impresa Mazzeo, cominciando ad ampliare il mio orizzonte commerciale e ad affrontare i mercati di Pescara, del Barese, del Potentino».
“Ero un venditore ambulante, a diciott’anni ho intrapreso l’attività di mio padre”
Oggi il suo marchio è leader in tre regioni, l’espansione continua oppure le difficoltà di mercato consigliano una pausa di riflessione?
«Siamo organizzati in tre società, i nostri dieci punti vendita a Potenza, Foggia, Manfredonia, Termoli, Campobasso, Sulmona, oltre che naturalmente a San Severo riescono a coprire un’area abbastanza diversificata. Puntiamo di salire ancora lungo l’area adriatica, anche nelle Marche ci sono buone potenzialità di crescita e potremmo farci un pensierino tra qualche tempo».
Investire sul mercato dei giocattoli era forse più redditizio un tempo, i ragazzi a dieci anni oggi sono distratti da altro. Ma forse i guadagni sono più diversificati.
«Senza dubbio vent’anni fa si facevano migliori affari. Oggi la fascia di riferimento della nostra clientela effettivamente si è abbassata: se prima il giocattolo rientrava nella sfera dei regali almeno fino ai 14 anni, oggi si arriva al massimo a 8 anni. Per quanto ci riguarda abbiamo impresso una decisa impronta alla nostra offerta puntando sulla manifattura e sul grande mercato cinese, che frequentiamo regolarmente ormai da 25 anni e con grande soddisfazione. Siamo felici di confrontarci con i fornitori cinesi, abbiamo importanti relazioni con quel grande paese che continua a macinare progressi in tutti i campi».
La Cina è però anche sinonimo di cultura dell’imitazione, se non della contraffazione. E il segmento dei giocattoli resta da questo punto di vista il fronte più delicato. E’ ancora valida questa impostazione, oppure i frequenti casi di cronaca assumono un aspetto marginale rispetto alla mole di vostri acquisti?
«Venticinque anni fa la Cina poteva essere un rischio da questo punto di vista, ma posso assicurare che i prodotti hanno conosciuto un’evoluzione straordinaria in termini di qualità e non soltanto sul piano della quantità. Temi come il rischio di contraffazione, di falso sono tutt’altro che marginali e che riscuotono da sempre una grande rilevanza nelle nostre valutazioni d’impresa. Devo però anche aggiungere che i nostri prodotti sono tutti certificati e conformi al marchio CE. Due nostri addetti alla sicurezza degli articoli importati dalla Cina sono costantemente impegnati sul controllo di qualità e specializzati sulle rigide norme della certificazione dei prodotti. C’è un lavoro enorme dietro ogni giocattolo a tutela della sicurezza, non si scherza con la salute delle persone e in special modo poi dei bambini».
“La Cina ha fatto passi da gigante, ora fanno prodotti di qualità che noi controlliamo ulteriormente”
Un lavoro comunque enorme e necessario, ci vuol poco a mettere in dubbio la credibilità di un marchio.
«Finora, grazie a Dio, non abbiamo mai incontrato difficoltà di questo tipo. Per un giocattolo dal costo di 3 euro che inviamo regolarmente a Viterbo, dove risiede il nostro punto di osservazione e analisi sui prodotti, viene effettuata una verifica colossale sulla fattura del prodotto. Se qualcosa non quadra, allertiamo immediatamente il fornitore cinese e quindi scatta un piano di revisione dell’acquisto che torna necessariamente alla fonte. Non possiamo lasciare nulla al caso».
La Cina è sempre più vicina, il mercato europeo della manifattura in genere e dell’automotive in particolare ne è già pesantemente condizionato. Che tipo di ripercussioni è lecito secondo lei ipotizzare sul made in Italy?
«Nella regione di Canton, dove io mi reco ogni volta per effettuare i nostri acquisti, non noto più in circolazione – e ormai da diverso tempo – auto costruite da case occidentali e parlo dei marchi più famosi, in particolar modo Bmw e Mercedes. Mentre noi ci stiamo ancora arrovellando il cervello sulle modalità di una riconversione completa sull’elettrico, in Cina sono già partiti e sono pronti a invadere i nostri mercati con le loro auto anche di buona fattura. Parliamo di un paese molto più pratico, senza troppi lacci della burocrazia e non soltanto di prezzi più bassi che è forse l’argomento che interessa di più i consumatori. La manifattura cinese possiede una forza d’urto in grado invadere tutti i mercati e che può schiacciare le nostre aziende se non riuscissimo ad opporci con la nostra capacità, il nostro stile italiano. Dovremmo fare molta attenzione».
L’America di Trump sarà un’ulteriore minaccia per l’Europa, ma lei che con gli intermediari cinesi ha imparato a dialogare crede che si arriverà davvero a uno scontro frontale tra due economie?
«In Cina si dicono pronti a entrare nelle dinamiche della nostre economie, ma è anche vero che in Cina stravedono per la manifattura europea e in particolare di quella italiana. Lo stile proposto sui mercati è un po’ quello rivisto e copiato da noi. Da questo punto di vista non credo che lo strapotere cinese abbia alcun interesse a considerarci come una concorrenza vera e propria. Succede anche sui giocattoli, ricordo che l’industria italiana dei giochi è stata la prima al mondo e la Cina ha saputo prendere spunto da ciò per inondare il mercato con i suoi prodotti. Naturalmente io mi limito a giudicare dal mio punto di osservazione, spero di non sbagliarmi».
Com’è cambiato il mercato nel settore ludico, visto che in Cina ci va da venticinque anni ed ha sempre acquistato prodotti di quel genere?
«Dalla Cina arrivavano un tempo soprattutto trenini e tricicli. Il comparto italiano del giocattolo è stato per decenni il più forte del mondo, la tecnologia dei nostri giocattoli ha formato generazioni di uomini. Poi però c’è stato un calo della produzione, abbiamo perso o stiamo ancora perdendo quote di mercato oltre che una tradizione storica. Non abbiamo più lo smalto di una volta purtroppo, il mercato ne risente mi creda. Dobbiamo reagire ma forse non sappiamo più da dove cominciare».
Le produzioni importate dal paese del Dragone modellano la sua organizzazione commerciale e fanno crescere i fatturati. Questa trasformazione quando arriva?
«Siamo intorno ai primi anni ’90 quando avvengono le prime importazioni di prodotti cinesi prima a piccole dosi. Ho ancora conservato i campioni di quelle forniture. Oggi tutti quei giocattoli di allora sarebbero considerati fuorilegge, le norme europee si sono largamente evolute e si attribuisce molta importanza non solo alla fattura del prodotto, ma alla consistenza e qualità dei materiali».
Oggi i giocattoli sono però soprattutto elettronici, è stata una rivoluzione anche per voi?
«Una rivoluzione totale nel senso che si sta smarrendo il significato e il valore educativo del giocattolo. D’accordo, i ragazzini oggi sono abilissimi sulla tastiera di un computer. Ma cosa c’è di educativo non saprei dirlo. L’elettronica ha ridotto il fatturato delle nostre aziende, ed ha inevitabilmente abbassato il segmento di riferimento del giocattolo: un tempo ricordo che la “Befana” dei dopolavoro contemplava la consegna dei giochi fino ai ragazzi di 14 anni, oggi se tutto va bene ci fermiamo agli 8 anni».
“Si sta smarrendo il significato e il valore educativo del giocattolo”
Un contraccolpo anche sulle vendite, siamo prossimi al Natale e questo per il vostro settore dovrebbe essere un momento di grandi affari.
«Lo era fino a qualche anno fa. Adesso un po’ meno. Diciamoci la verità: si vende molto di più nel periodo natalizio. Ma gli affari non sono gli stessi, i prezzi si riducono perchè aumentano le strenne e dunque anche i ricavi. Si va molto meglio, mi creda, in altri periodi dell’anno quando le richieste diminuiscono però chi acquista lo fa a prezzo pieno».
Qual è il giocattolo che continua a registrare vendite importanti sul mercato?
«Tolti i giocattoli tradizionali, che hanno sempre un mercato sia pure moderato, vendiamo molti simil-tablet, i giocattoli elettronici insomma che piacciono ai bambini. C’è una risalita dei peluche, dopo un crollo vertiginoso qualche tempo fa».
Funziona ancora la vostra partnership con Giochi Preziosi, leader del mercato nazionale?
«Siamo stati per lungo tempo rivenditori del marchio Preziosi, adesso per lo siamo molto meno: non ci piacciono gli accordi che si cerca di applicare, non sempre ci intendiamo con loro e allora lasciamo andare».
In ogni caso “Giochi Mazzeo” è diventato un marchio a sua volta.
«Devo dire che il nostro logo funziona, sia venduto singolarmente nei nostri show rooms, sia attraverso la vendita al dettaglio presso altri brand di riferimento: siamo presenti, ad esempio, nelle stazioni di servizio del gruppo Sarni sulle autostrade, così come nella grande distribuzione presso Famila e MD».
Lei è stato consigliere della Camera di commercio per più mandati, conosce la realtà locale. Oggi ha passato il testimone a Daniela, sua figlia, neo componente di giunta. Ha visto in questi anni cambiare e in che modo l’assetto imprenditoriale locale?
«Abbiamo una Ferrari con il motore di una Cinquecento. Non è facile fare impresa qui, siamo condizionati dal fenomeno delinquenziale è inutile nasconderlo. Oggi a San Severo si respira un’aria diversa, tocchiamo ferro. Mia figlia Daniela dice che non c’è cultura d’impresa e i ragazzi per questo motivo spesso vanno via. Io dico che manchi un’azione politica seria, le amministrazioni locali non aiutano gli imprenditori del posto. E’ il caso che sto seguendo qui a San Severo da qualche tempo: vorrei aprire un altro capannone, investire sul potenziamento della logistica, il Comune di San Severo però non decide, la pratica resta impantanata tra varie commissioni consiliari. Perchè?».
“Le amministrazioni non aiutano gli imprenditori. Vorrei aprire un capannone a San Severo ma il Comune non decide, perchè?”
E’ vero, i giovani sembrano distratti. Ma in regioni come la Sicilia e la Campania, anche forse nel resto della Puglia, esiste un humus imprenditoriale più specifico che caratterizza il pomodoro Pachino come il “femminello” di Sorrento. Bisognerebbe interrogarsi sul perchè i marchi foggiani non sfondano.
«E’ una bella domanda. I tentativi di fare squadra non sono mancati, nel 1988 ci organizzammo sul territorio per realizzare una struttura di raccordo come il “Centro Capitanata” che avrebbe dovuto fare massa critica sui mercati e sviluppato il nostro potere d’acquisto. Quel tentativo fu tuttavia vanificato dai veti incrociati e dalle gelosie di alcuni. In questo modo si gestiscono qui i piani di investimento, si fanno le lottizzazioni d’impresa per l’obiettivo di pochi».
L’economia non gira come dovrebbe anche a causa di questi tentativi a vuoto. Come considera la qualità dell’offerta commerciale e che pensa che la consideri il consumatore?
«Vorrei farle un esempio che riguarda strettamente il mio settore, giusto per capirci. Vendiamo pochissime confezioni di Lego qui a San Severo e in altri punti vendita che abbiamo in provincia. Non accade lo stesso in altri punti vendita, da Campobasso in su. Parliamo di un prodotto dal costo più alto rispetto alla media. Succede lo stesso con un altro articolo, i “Playmobil”: anche in questo caso vendite più spiccate da Campobasso in su. Articoli che costano un po’ di più e che qui vengono sistematicamente ignorati. Per un problema di costi, senza dubbio. Un segnale che rivela quello che ci diciamo da tempo: il territorio è povero, i cinesi fanno affari d’oro qui perchè vendono a basso costo».
Andar via la considera un’ipotesi plausibile? Teme che potrebbero pensarci i suoi eredi?
«Io non ci penso, loro non so e non me lo auguro. I miei figli sono tutti concentrati sull’azienda di famiglia: Umberto, il primogenito, è il responsabile degli acquisti; Pino, il secondo, si occupa del commerciale ed ha investito anche su due lidi balneari a Marina di Lesina; Daniela è la responsabile della contabilità. Sono loro il futuro di questa azienda, si sono formati per andare sempre avanti e crescere. Daniela si è laureata in Economia alla Luiss, ha vissuto due anni a Londra, è rientrata per occupare un ruolo importante in questa azienda».
Andar via ipotesi plausibile, Daniela?
«Chi va fuori poi sente la nostalgia del ritorno a casa – risponde Daniela Mazzeo – è una sensazione che ho provato sulla mia pelle, ma me lo dicono in tanti. Un mio amico che vive a New York e si è affermato lì, non avrebbe alcuna ragione di rimpiangere il proprio territorio e invece lo fa, me lo ricorda ogni volta che ci sentiamo».
Per cambiare le cose voi figli d’arte avete la possibilità di incidere, non può mancare la vostra voce nel dibattito politico locale. Ne conviene?
«Non a caso ho cominciato questa esperienza in giunta camerale. Unica donna. Ho tanti amici imprenditori, molto capaci. Siamo però scollegati tra di noi, questo è vero, la quotidianità prende il sopravvento. Manca l’elemento di raccordo, dovremmo essere più sul pezzo su certi temi. Dal mio punto di osservazione cercherò di agevolare questo percorso».
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