Ad un certo punto, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, intravede una grande sagoma scura. Sospira di sollievo quando si accorge che è soltanto una balenottora incuriosita dalla sua imbarcazione, il Surprise, un 11 metri in legno progettato nel 1968. Poi però è il turno della madre e d’un tratto vibra tutto. Pochi istanti e l’acqua salata sgorga da una falla. La botta è stata forte. Se non si sbriga, rischia seriamente di colare a picco. Si tuffa nell’immensa distesa blu, Ambrogio Fogar, e con i suoi attrezzi riesce miracolosamente a riparare la falla. Risale la scaletta della sua imbarcazione, esausto. Il viaggio può proseguire.
E’ soltanto uno degli inevitabili imprevisti occorsi al navigatore milanese che cinquant’anni fa si cimentò – primo italiano di sempre – nel giro del mondo in barca a vela da est a ovest. Era un’impresa gigantesca, ma per lui, assicuratore avvolto dal grigiore della Milano anni Settanta, la vera missione impossibile sarebbe stata rimanersene fermo.
“Trovarmi, ecco la mia ansia”, scrisse in seguito nel libro che avrebbe raccontato quel viaggio. Alludeva ad una traversata interiore prima che fisica. Era il primo di novembre del 1973. Lui aveva soltanto trentadue anni. Salpava quel giorno dal molo di Castiglione della Pescaia, dove era fissato anche il rientro. Sarebbe tornato indenne il 7 dicembre del 1974. Quattrocento giorni trascorsi tra mari e oceani, in completa solitudine.
Surprise l’aveva progettata nel 1968 John Holden Illingworth. All’assemblaggio ci aveva pensato Niccolò Puccinelli. Tutto quel cedro magnificamente incollato insieme era rimpinzato di scorte di cibo, acqua e libri. La direzione era tracciata: l’Atlantico, Capo Horn e quindi il Capo di Buona Speranza.
Prima di lui ce l’avevano fatta soltanto due velisti, Scolum e Chichester. Anche perché qui non si trattava semplicemente di essere marinai esperti. Bisognava anche saper reagire agli ostacoli che non potevi scansare e che sicuramente avresti incrociato percorrendo quella quantità di miglia nautiche.
Non c’era nemmeno l’elettronica a supportarlo, né Gps o satellitari. Fogar doveva cavarsela dispiegando le carte nautiche, affidandosi ad una bussola, interrogando una ricetrasmittente gracchiante nei momenti di maggiore sconforto. Tutto quel tempo trascorso con sé stesso è come una mappatura interna. Gli consente di interrogarsi, di capire in che direzione intende virare con la sua vita. Ma certo da soli i rischi si amplificano. Un giorno sta solcando l’Oceano Pacifico quando, indolenzito dal sonno, viene svegliato da un forte rumore. Un’enorme nave a prua. Che non l’ha visto. Troppo tardi per schivarla. Il Surprise si sposta di scatto, ma sbatte comunque il fianco. I danni inflitti dal gigante metallico non la affondano, ma costringono comunque Fogar ad una sosta tecnica a Rio de Janeiro, per le riparazioni necessarie.
La navigazione riparte tra tempeste, onde inquietanti e moltissimo silenzio.
Dopo oltre un anno, al suo ritorno, il molo è affollato da migliaia di persone. Voleva trovare un senso alla sua esistenza ed è andato a raccoglierlo in mare. Sarà la prima di una serie di imprese. Certo la più indimenticabile.
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