L’anno record fu il 2012, prima che calasse la scure del governo Monti. Quando i partiti italiani incassarono la cifra monstre di 180 milioni di euro. Ma non chiamateli finanziamenti pubblici: quelli (in teoria) non esistono più dal 1993. Da quando un referendum abrogativo promosso dai Radicali sull’onda degli scandali di Tangentopoli decretò lo stop all’afflusso di fondi dalle casse dello Stato a quelle della politica. In realtà, anche se sotto varie forme e drasticamente ridotto dopo il 2013, con l’addio imposto dall’esecutivo Letta, il finanziamento ai partiti non se n’è mai del tutto andato. Il problema è che oltre dieci anni dopo, a sinistra come a destra si fa strada una convinzione. «Non siamo riusciti a moralizzare la vita pubblica, come dimostrano le inchieste di questi anni sui contributi dei privati alla politica a cominciare dal caso Toti», ragionano fuori dai microfoni fonti parlamentari di centrodestra e centrosinistra. «E abbiamo indebolito i partiti, che sono l’unico canale tramite cui si esercita la democrazia. E che, è forse brutto dirlo, per vivere hanno bisogno di soldi». E se i fondi non arrivano dal pubblico, suona in sostanza il ragionamento, è inevitabile andarli a cercare dal privato. Che magari un domani potrebbe chiedere qualcosa in cambio.
IL TENTATIVO
C’eravamo tanto sbagliati, quindi? Forse. Si spiega così il blitz stoppato dal Quirinale, ma poi di fatto rispuntato come emendamento al decreto fiscale (anche se in versione “light”) e approvato dal Senato, per aumentare il tetto del due per mille ai partiti. Fatta eccezione per i fondi ai gruppi parlamentari di Camera e Senato – che però devono essere utilizzati, appunto, per le attività dei gruppi parlamentari –, il due per mille è l’unico sistema con cui dal 2013 i partiti ottengono contributi pubblici. Con questo sistema, in pratica, in sede di dichiarazione dei redditi ogni contribuente decide se destinare lo 0,2 per cento della propria Irpef a un certo partito. Tutto il resto, il cosiddetto “inoptato”, rimane nelle casse dello Stato, a differenza di quanto avviene con l’8 per mille in cui alle varie confessioni religiose finiscono anche i fondi di chi non effettua alcuna scelta (in proporzione rispetto alle scelte fatte dagli altri contribuenti). Il meccanismo del 2 per mille è andato crescendo di anno in anno, così come il numero di chi ha deciso di indicarlo nel suo 730. E dai 7,7 milioni di euro del 2014 si è passati ai 15 nel 2017, fino agli oltre 24 del 2023. Ed è qui che entra in gioco l’emendamento contestato, presentato da Pd e Avs sulla base di un precedente disegno di legge del senatore dem Andrea Giorgis. La versione iniziale prevedeva di innalzare il tetto dei fondi pubblici destinabili ai partiti da 25,1 a 28 milioni. Il governo l’ha riformulato, proponendo una modifica il sistema: non più il 2 ma lo 0,2 per mille, ma con in più tutta la quota dell’inoptato. In questo modo, pur diminuendo la percentuale, il tetto dei contributi si sarebbe innalzato fino a oltre 40 milioni. Un tentativo stoppato dal Quirinale per diverse ragioni, tra cui la convinzione del Colle che una riforma di questa portata non possa essere contenuta in un emendamento, e men che mai approvata con un decreto legge su materie poco omogenee, strumento che andrebbe utilizzato solo per i casi di necessità e urgenza.
LA STRATEGIA
Così alla fine si è tornati a una formulazione più simile all’originale, già approvata dal Senato: niente “inoptato” e tetto innalzato per quest’anno a 29,7 milioni. Basterà? In molti sono pronti a scommettere di no. Anzi: si parla già di riaprire il dibattito in Manovra, alla Camera, riproponendo in sostanza lo schema già cassato (anche se apparentemente per ragioni di metodo) dal Quirinale. Il consenso c’è ed è (quasi) unanime: per il no si sono espressi solo Avs e M5S, anche se l’opposizione dei pentastellati (che per la prima volta l’hanno scorso hanno deciso di dire sì ai contributi del 2 per mille) viene vista da più parti come piuttosto debole. «Senza finanziamento pubblico la democrazia diventa un affare per ricchi», il commento del dem Giorgis. Al quale da FdI fa eco Fabio Rampelli: «È un dato di fatto che tutte le democrazie occidentali hanno un finanziamento pubblico, tranne gli Stati Uniti però si accettano senza polemiche i soldi di tutti, nessuno escluso». E pensare che la prima forma di finanziamento pubblico era stata varata nel 1974, dopo il cosiddetto “scandalo dei petroli”, più o meno per le stesse ragioni: diminuire il condizionamento della politica da parte di altri poteri, quasi sempre privati. Un’altra epoca. Oppure no?
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