Con la prospettiva di investire 800 miliardi sull’innovazione, la decarbonizzazione, e l’indipendenza strategica, il rapporto Draghi costituisce un passaggio importante all’interno della crisi che sta attraversando l’Europa. Gli va riconosciuto un realismo indispensabile nel suo sforzo di pensare il futuro. Ma se non riesce a dischiudere delle prospettive nuove, il realismo può anche diventare una forma di rassegnazione allo stato delle cose. Paradossalmente, questo rapporto sull’innovazione è poco innovativo.
Sembra di tornare agli anni 1980, quando, sull’onda degli shock petroliferi, si era cercato di stimolare l’innovazione in un contesto di aumento della spesa militare. L’unica differenza rispetto a oggi, che il rapporto Draghi ha ben chiara, è che non si può più realizzare guadagni di competitività sugli stipendi e la spesa sociale. Ormai agli estremi, le società europee non sarebbero in grado di reggere ulteriori tensioni sociali senza spezzarsi. Colpisce anche una certa fatalità rispetto allo scenario mondiale. Le società europee devono adeguarsi alle esigenze geopolitiche del momento, il che significa adeguarsi alla guerra.
La guerra è l’elefante nelle stanze di palazzo Berlaymont. Dall’Ucraina a Gaza, l’Europa sembra trascinata – in certi casi suo malgrado, in altri con un entusiasmo da guerrafondaio di retrovia – in conflitti dai quali il progetto europeo non può uscire indenne. La cosiddetta “Nuova Europa” (quella bellica, per intenderci, che va da Varsavia a Riga o Helsinki e che fa capo a Washington e Londra) forse trae vantaggi politici dal suo atlantismo sfrenato, ma a quale costo? Quanto tempo la “vecchia Europa”, basata su un progetto di pace continentale, sarà in grado di ingoiare rospi? Si pensi alla Germania, che da buon allievo accetta di aumentare la spesa militare e tace quando il suo principale alleato fa saltare in aria le sue infrastrutture energetiche con l’aiuto di un vicino di casa. Per poi guardare, paralizzata, i progressi inevitabili dell’estrema destra.
In questo contesto, cosa vuol dire «innovazione»? Non si vede come chiedere alle università di partorire degli unicorni, startup ad alta capitalizzazione, possa essere all’altezza delle sfide del momento. Ne si tratta di produrre droni alimentati da panelli solari o oli di frittura riciclati. Innovazione significa anche innovazione politica e sociale, capacità di individuare i punti ciechi del presente e dischiudere scenari alternativi, la possibilità di staccarsi da modi di pensare esausti. Se c’è bisogno di un unicorno, è per sostituire l’elefante del Berlaymont. La crisi che vive l’Europa è anche e soprattutto una crisi dell’intelligenza e della cultura politica. Sarebbe ingenuo credere che il collasso delle classi medie verificatosi negli ultimi decenni non abbia intaccato le culture civiche di cui erano garanti e quindi le stesse classi dirigenti che ne uscivano.
La denuncia del «populismo» non basta più a nascondere questo declino culturale che attraversa anche i ceti dominanti. È proprio perché assicurano la formazione dell’intelligenza collettiva che le università hanno un ruolo fondamentale da giocare, in particolare nel campo delle scienze sociali e umanistiche, di cui il rapporto non dice nulla. Quindici anni fa, un’America impantanata in Iraq e in Afganistan si era posto il problema di come uscire dai vicoli ciechi delle forever wars.
Il Pentagono aveva lanciato un programma di investimento nelle scienze sociali e umani, la Minerva Research Initiative. C’erano molte cose da ridire su questo programma, ma c’era anche una intuizione di fondo alla quale il rapporto avrebbe potuto ispirarsi. Per gli ufficiali della difesa, le sconfitte dal Vietnam in poi erano il risultato di una tunnel vision: non avevano saputo ascoltare i loro critici. Ora, non si trattava più di indirizzare la ricerca per ottenere risultati scontati al servizio di decisioni già prese, bensì di promuovere un ecosistema di pensiero autonomo e critico. Solo esponendosi a questo confronto, pensavano, potevano uscire dalle crisi. L’Europa in guerra avrà l’intelligenza di fare altrettanto?
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