Sciopero dei magistrati, questione corporativa o di poteri?


Tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.

È un modo dire di fronte ad affermazioni iperboliche o progetti faraonici. Ricorre sulla credibilità del linguaggio politicante di promesse improbabili sciorinate nelle campagne elettorali. Ma è anche un busillis di attualità nel braccio di ferro tra il Governo e l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) sul progetto di riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario già incardinato in Parlamento.

La relativa contrapposizione tra potere giudiziario, da un lato, e potere esecutivo e legislativo, dall’altro, ha avuto origine nei primi anni novanta del secolo scorso, a seguito di “tangentopoli”, con l’abolizione dell’immunità dei parlamentari introdotta nella Carta del 1948 dai costituenti a garanzia della loro indipendenza ed autonomia nell’esercizio delle loro funzioni di rappresentanza e legiferazione. Da allora le cronache uscite dai Palazzi di Giustizia hanno reso sequenze di indagini e processi nei confronti degli eletti nelle istituzioni politiche fino a determinarne, ai vari livelli, il funzionamento e la selezione del relativo personale politico.

Un fenomeno di esondazione del potere giudiziario, denunziato dal mondo della politica, ed ora, a parti inverse, temuto dal sindacato dei magistrati che intravede segnali di invasione di campo nei contenuti della citata riforma che riguarda la separazione delle carriere dei requirenti dai giudicanti, la costituzione di un’Alta Corte di disciplina per la valutazione del loro operato e la formazione di due distinti CSM mediante il metodo del sorteggio. Il livello di scontro ha indotto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, senza entrare nel merito dei contenuti della riforma, ad esortare l’attuale CSM a procedere rapidamente all’attuazione della riforma dell’ordinamento approvata nella scorsa legislatura ed affermando la garanzia dell’indipendenza delle toghe, ha auspicato, qualunque ruolo esercitato da ciascuna di esse, “serenità della vita istituzionale” turbata dal conflitto tra il Governo e la magistratura.

E qui si pone il busillis del fare e del dire: chi ne è legittimamente abilitato ad esercitare i rispettivi poteri? Chi deve fare le leggi e chi deve applicarle? Lo jus a fare nella nostra Costituzione appartiene al Governo ed al Parlamento, esecutivo e legislativo, espressione della volontà elettorale e della sovranità popolare (Art. 1) e nella stessa Carta sono configurate le prerogative a “dicere” della magistratura chiamata ad applicare con sentenze le leggi già scritte.

Da entrambi le parti si sostiene, rispettivamente, di operare e di contestare nell’interesse dei cittadini: senza alcun intento punitivo posto in essere dal Governo e rivendicativo invocato dal sindacato dei magistrati a salvaguardia dell’autonomia della giurisdizione. Sul punto insorge un dubbio sulla natura dello sciopero e delle altre manifestazioni di protesta che ne seguiranno: si tratta di una rivendicazione corporativa di un ordine dello Stato o si mira a correggere un universo politico neghittoso o ritenuto inadeguato o corruttibile? Come dire che dietro alle esternazioni dei magistrati scioperanti si configurerebbe il timore della perdita non tanto della loro indipendenza quanto l’auto investitura del “controllo della virtù” (copyright tratto da una pubblicazione del 1998, “Il potere dei giudici”, di Alessandro Pizzorno).

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Anche Sabino Cassese, ex giudice costituzionale, vi vede, in realtà, “soprattutto questioni di potere”, evidenziando in una intervista rilasciata ad Alessandro Sardoni, pubblicata nei saggi tascabili Laterza, come “una carriera unica consente più opportunità di trasferimenti e di promozioni” e che in Costituzione sono contenute disposizioni di garanzia sia per i giudici che per i pubblici ministeri. Ed è qui che si pone la questione della separazione e distinzione dei poteri ben delineati nella nostra Costituzione scritta e negletta da magistrati i cui comportamenti assunti o praticati da “tangentopoli” in poi volessero dire, mutuando la celebre frase pronunziata in epoca di assolutismo regio da Luigi XIIV, “L’Ètat c’est moi”, senza che ci fosse stata – osserva Cassese nella citata pubblicazione – “alcuna reazione” da parte di un mondo politico silente, frastornato da inchieste e tormentato dal dubbio di credere “ancora alla regola della divisione dei poteri” esternato già nel 1992 anche da Luigi Longo, vicesegretario del PCI.

Con la proposta di riforma, che reca il nome del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si apre un nuovo capitolo. Il suo iter parlamentare, salvo intoppi ed al di là di possibili modifiche conciliabili nella preannunziata apertura di dialogo tra Governo ed ASN, è supportato da una maggioranza politica sufficiente per rimetterne la conferma al voto di promozione o bocciatura espresso direttamente dai cittadini mediante Referendum.

Buon viaggio, qualunque sarà l’esito della consultazione.



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