«Vance ha innescato l’escalation ma Zelensky ha messo in dubbio la diplomazia Usa»


Un duello in mondovisione quello tra Trump e Zelensky nella serata di venerdì. Un fallimento diplomatico ma anche comunicativo. Una catena di errori prima di tutto «organizzativa» secondo Luigi Di Gregorio – professore di Scienza Politica presso L’Università della Tuscia, esperto di comunicazione politica e autore di “War room” – secondo cui l’incontro si sarebbe dovuto svolgere a porte chiuse o «solamente ad accordo siglato».

Quali sono le caratteristiche più significative dello scontro di ieri?

«Le riassumerei in una frase finale di Donald Trump: “This is gonna be great television”… Dopo l’escalation dei toni, in diretta TV, il Presidente si è reso conto che quei minuti sarebbero diventati centrali nel dibattito pubblico mondiale. E in effetti è un “pezzo di televisione” che rivedremo spesso. Ma al di là dello show, il punto politico cruciale è che non si è raggiunto nessun accordo».

Ci sono stati errori di comunicazione?

«A mio avviso c’è stato prima di tutto un errore di pianificazione, di gestione dell’evento. Per quanto si possa “controllare” un incontro in diretta di quel tipo, non andrebbe fatto prima di firmare l’accordo. Era prevista una conferenza stampa finale, ad accordo siglato, e sinceramente avrei evitato qualsiasi dichiarazione pubblica prima di quell’evento. In quel caso, un chiarimento, anche acceso, sarebbe stato precedente e a porte chiuse, non a favore di telecamera».

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Oltre alla pianificazione, quali errori hanno commesso Trump e Zelensky?

«Gli errori ci sono stati da entrambe le parti, ma come sempre l’interpretazione dipende dai pubblici di riferimento. Ad esempio, è chiaro che nel momento in cui Zelensky mette in dubbio la capacità diplomatica americana, sostenendo che con Putin la diplomazia non funziona, questo risulta come un attacco diretto alla capacità risolutiva dell’amministrazione Trump. E un’affermazione del genere, fatta nello studio ovale e in diretta TV, ha un peso specifico notevole. Ecco perché a quel punto Trump (e Vance) hanno iniziato a parlare al proprio pubblico di riferimento – il popolo MAGA – facendo passare Zelensky come un ingrato e gli Stati Uniti come l’unico attore in grado di giungere alla pace. Se la vogliono. Altrimenti, “c’è un oceano di mezzo”, come a dire ve la vedete voi…».

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Cosa si sarebbe dovuto fare diversamente?

«Ripeto, avrei fatto l’incontro a porte chiuse e poi la conferenza stampa, solo a risultato ottenuto, cioè ad accordo siglato, una volta risolte le questioni più spinose lontano dalle telecamere. Quando si perde il controllo in diretta TV, diventa automatico iniziare a parlare ai propri pubblici e così facendo la discussione si polarizza ulteriormente e allontana ogni ipotesi di accordo. Oltre al danno sul negoziato, il segnale politico che ne esce è pesante: divisione totale su un fronte che dovrebbe essere unitario.»

Qual è stato il ruolo di Vance nello scontro?

«È stato, di fatto, l’innesco dell’escalation. Fino all’intervento di Vance, la tensione era alta ma controllata. Si percepiva già una distanza tra le posizioni, perché Zelensky ha sempre rimarcato la differenza con Putin e quella tra paese aggressore (Russia) e paese aggredito (Ucraina). Questa distinzione di “sottofondo” è poi esplosa nel momento in cui Vance ha parlato di diplomazia perché Zelensky – è evidente – non si fida del rispetto dei patti da parte di Putin. E Trump (e Vance) hanno reagito come se fosse un attacco agli Stati Uniti, più che alla Russia».

Quale tecnica comunicativa ha adottato Trump?

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«Trump tende a essere, già nella postura, sempre dominante e in controllo. Era seduto con gambe divaricate e busto in avanti, classica posizione di sicurezza e di chi sa di poter gestire la discussione. E fino a un certo punto l’ha gestita. Poi, dopo l’”innesco Vance” e lo scetticismo di Zelensky, ha cambiato tono, volume e registro perché ha capito che era stata messa in discussione la sua capacità di negoziatore. E dunque ha spinto sul “debito simbolico” dell’Ucraina verso gli Stati Uniti e sulla colpevolizzazione dell’ospite, ripetendo più volte “you should be grateful”. Insomma, ha smesso di parlare a Zelensky e ha iniziato a parlare al popolo MAGA. Così come quando ha imposto la sua “posizione dominante” nella negoziazione: “non sei nella posizione di dirci cosa accadrà agli Stati Uniti, noi staremo benissimo e saremo fortissimi”».

E Zelensky?

«Ha iniziato apparentemente sereno e in controllo, ma col passare dei minuti il nervosismo è aumentato: le gambe si muovevano parecchio, le mani anche. Più Trump metteva sullo stesso piano Russia e Ucraina, dicendo “Io sono con gli Stati Uniti e con il mondo” (come a dire “non sono con l’Ucraina e contro la Russia”), più il nervosismo aumentava. Quando la situazione si è aggravata, mentre parlava Vance, Zelensky ha persino incrociato le braccia, in atteggiamento di “chiusura” verso le parole del Vicepresidente. Ma a quel punto un po’ tutto era degenerato ormai e in diversi casi i tre hanno iniziato a parlarsi addosso senza controllo».

Quali sono stati gli effetti sui loro pubblici?

«Di mobilitazione e di orgoglio, ma questo è il problema, paradossalmente. Si doveva sugellare un accordo e dare un segnale di unità. È finita, invece, con un “noi” contro “loro” in cui ognuno è più orgoglioso di prima del proprio leader. Ma ora i leader e le rispettive “tribù” sono molto più distanti. E i festeggiamenti a Mosca lo dimostrano».

Come potranno riparare agli errori?

«Probabilmente servono un “campo neutro” e l’intervento di altri attori per riavvicinare le parti e ridefinire la narrativa, da fallimentare a “negoziato in corso”, pienamente legittimato. Sotto questo profilo, la proposta di Giorgia Meloni mi sembra utile e pragmatica. Al posto di un secondo round bilaterale (Usa-Ucraina), un vertice “occidentale” che riporti verso binari di unità e di coesione e che faccia da apripista a eventuali altri incontri a due. Ovviamente, anche in quel caso, le telecamere le accenderei solo alla fine…».

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