Se la sinistra non sa più come si va in piazza – Libero Quotidiano



Corrado Ocone

Sinistra e piazza è un binomio storico. Ma non tutte le piazze e non tutte le sinistre sono uguali. La piazza di oggi può essere paragonata a quella del vecchio Partito Comunista? Non è una questione solo di numeri, assolutamente non comparabili: oggi a manifestare sono solo poche migliaia di attivisti, anche se poi gli organizzatori gonfiano di prassi il numero dei partecipanti. La vecchia e immensa Piazza San Giovanni, ove Palmiro Togliatti arringava i militanti venuti da tutta Italia, non viene quasi più utilizzata e ha ceduto il posto alle più piccole e facilmente riempibili Piazze del Popolo o dei Santi Apostoli. La differenza è però di sostanza.

Un tempo in piazza ci si arrivava preparati, quasi come l’ultimo atto di un percorso che era partito dai leader e coinvolto solo uno stretto numero di dirigenti, nei quali il popolo comunista nutriva una fede quasi incondizionata. La piazza serviva per dimostrare la forza dell’organizzazione, l’unità e la coesione del partito intorno a idee precise, non solo per testimoniare un’appartenenza. Due erano i principi che muovevano il vecchio Pci togliattiano: da una parte, un’analisi seria e rigorosa della situazione politica; dall’altra, la capacità di elaborare proposte realistiche, cioè che tenessero in conto dei reali rapporti di forza interni e internazionali. La rivoluzione, ovvero il passaggio dalla società capitalista a quella socialista, era ovviamente l’obiettivo, ma il percorso era per forza di cose accidentato.

 

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L’importante era non arrestarsi, far lavorare la “vecchia talpa”. L’impianto retorico dei discorsi dei leader che si alternavano sul palco seguivano non a caso un canovaccio preciso: si partiva dalla situazione internazionale, per misurare lo stato di crisi del capitalismo mondiale; se ne individuavano le presunte “contraddizioni”; se ne consideravano gli effetti sulla politica italiana; si elaboravano proposte che, inserendosi in queste contraddizioni, potessero essere favorevoli ad una evoluzione in positivo per la classe operaia. Quanto di tutto questo è rimasto nella piazza odierna della sinistra, ad esempio in quella convocata per il 15 marzo da Michele Serra e a cui ha aderito la leader del partito erede dei vecchi comunisti? La piazza mostrerà unità e coesione? Niente affatto. Le divisioni a sinistra sono così profonde e mai ricomposte che quel giorno tutti dovranno far ricorso alla più sfacciata ipocrisia, deviando casomai il discorso sul “fascismo” mondiale e su quello nostrano. C’è a sinistra un’analisi seria e rigorosa della realtà politica mondiale che vada oltre lo slogan “Trump no, Europa sì”? Non sembra.

Un Togliatti non si sarebbe certo limitato a dire che Trump era nazista, pericoloso, rozzo e violento (volendo anche lui sapeva esserlo): si sarebbe piuttosto chiesto perché gli americani lo hanno votato e perché apprezzano la sua azione. Avrebbe osservato che sta cambiando le carte nel mondo, ma si sarebbe posto la domanda su quali siani i suoi obiettivi. In tutto questo, c’è una proposta realistica, concreta, per cui si scende in piazza? Michele Serra, nel suo appello, scrive: manifesteremo «per l’Europa» perché «qui o si fa l’Europa osi muore».

Va bene, ma quale Europa? Prima di tutto bisognerebbe chiarirsi su questo punto, poi chiedersi se l’Europa che si sogna è la stessa che vorrebbero i popoli europei, infine capire su quali forze lavorare per far evolvere la situazione nel senso auspicato. Sono domande che nessuno si pone più a sinistra. Scendere in piazza è allora solo un modo per rassicurarsi, per sentirsi ancora parte di una tribù per quanto sempre più piccola e con le idee sempre più vaghe, per autocompiacersi e rimirarsi allo specchio come “belli e puri” in un modo di loschi e cattivi. Elias Canetti parlerebbe di una “massa chiusa”, ma qui nemmeno la massa c’è più.

 

 

 

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