La storia insegna, ma il mercato dimentica in fretta.


I dazi tornano a dominare la scena globale, ma l’epilogo sembra già scritto. Dall’Atto Smoot-Hawley del 1930 ai più recenti scontri tra USA, Cina, Messico e Canada, la lezione è sempre la stessa: il protezionismo è un gioco a somma negativa. Proteggere le industrie domestiche può sembrare una vittoria, ma il prezzo da pagare è alto: ritorsioni commerciali, aumento dei costi per aziende e consumatori, e mercati in modalità “risk-off”.

Il ritorno dei dazi: Trump alza la posta

Questa volta non si tratta solo di una schermaglia commerciale: l’amministrazione Trump sta ridisegnando le regole del commercio globale, alternando minacce, pressioni e azioni concrete. Dal 4 marzo 2025, gli Stati Uniti hanno imposto tariffe del 25% su quasi tutte le importazioni da Canada e Messico, con un’eccezione per l’energia canadese (10%), mentre i dazi sui beni cinesi sono stati raddoppiati dal 10% al 20%. La risposta non si è fatta attendere: Canada e Cina hanno annunciato immediate ritorsioni, mentre il Messico posticipa al fine settimana la possibile risposta.

L’offensiva protezionista di Trump non accenna a rallentare. Il presidente ha messo nel mirino l’industria automobilistica europea, minacciando dazi del 25% e accusando l’UE di essere stata “creata per fregare l’America”. Ma le mosse non si fermano alle quattro ruote: Washington punta anche sull’e-commerce cinese, rivedendo le esenzioni tariffarie per i pacchi sotto gli 800 dollari, una breccia sfruttata dalle piattaforme digitali di Pechino per aggirare i dazi esistenti. E non è tutto, la Casa Bianca è pronta a spingere ancora sull’acceleratore del protezionismo.

Per l’Europa, il rischio è tutt’altro che teorico. Trump ha già dichiarato che le tariffe sulle merci UE sono solo questione di tempo. Se attuate, potrebbero colpire un mercato da 48 miliardi di euro di surplus commerciale nel 2023, pari al 3% del totale degli scambi transatlantici. Un colpo che Bruxelles non potrà ignorare.

Effetto a catena sull’economia USA

Le guerre tariffarie non restano confinate ai fogli di bilancio delle multinazionali, ma arrivano dritto nel portafoglio dei cittadini. Fino a 2.000 dollari di costi aggiuntivi all’anno per le famiglie americane, con prezzi in rialzo per auto, generi alimentari e beni di consumo. Target ha annunciato che nei prossimi giorni ritoccherà i prezzi al rialzo, segnale chiaro di come le aziende stiano trasferendo rapidamente l’impatto delle tariffe sui consumatori, trasformando il protezionismo in un moltiplicatore di inflazione.

E mentre la Fed cerca di mantenere un equilibrio precario tra crescita e inflazione, il presidente della Fed di New York John Williams avverte: “I dazi contribuiranno all’aumento dei prezzi, ma resta incerto quanto forte sarà l’impatto”. Un timing infelice, in un contesto in cui la banca centrale americana potrebbe trovarsi costretta a tagliare i tassi d’interesse per evitare un rallentamento economico.

Contabilità

Buste paga

 

Ma per la Casa Bianca, le tariffe non sono solo una questione commerciale: sono una leva fiscale. Trump punta a usare i dazi per finanziare il taglio delle tasse, creare un Fondo Sovrano e abbassare la corporate tax al 15%. Un’idea che riecheggia il modello di finanziamento dell’era McKinley, citato non a caso nel suo discorso inaugurale, ma che oggi rischia di trasformarsi in un boomerang economico, rallentando più di quanto possa incassare.

Strategia politica o errore di calcolo?
Se da un lato la narrativa trumpiana insiste sulla necessità di riportare la manifattura negli Stati Uniti, la realtà racconta un’altra storia. Durante la sua prima presidenza, aveva già imposto dazi su 380 miliardi di dollari di importazioni cinesi, senza riuscire a riequilibrare il deficit commerciale. Oggi gli economisti avvertono: la crescita americana potrebbe frenare fino allo 0,6% del PIL, mentre le nuove tariffe non faranno altro che erodere ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie.

Eppure, nel caos, c’è chi fiuta l’opportunità. Larry Fink, CEO di BlackRock (NYSE:), invita gli investitori a “comprare nei ribassi”, convinto che la volatilità sia solo un’illusione di breve termine. BlackRock stessa ha recentemente investito in porti strategici nel Canale di Panama, un chiaro segnale che dietro le turbolenze si nasconde una ridefinizione delle catene di approvvigionamento. In altre parole, le pressioni tariffarie di Trump iniziano a tradursi in movimenti concreti, e il mercato – come sempre – sta già cercando di adattarsi.

Il mercato troverà un nuovo equilibrio
La storia lo insegna: i mercati non si muovono sui titoli di giornale, ma sulle aspettative. Nel 2018, quando la guerra tariffaria tra Stati Uniti e Cina sembrava senza via d’uscita, Wall Street crollò. Ma bastò un cambio di rotta della Fed e un segnale di distensione commerciale per far ripartire i listini.

E oggi? Il copione potrebbe ripetersi. Trump ha trasformato le tariffe in un’arma geopolitica, ma lo scenario resta in evoluzione. Si parla di tre tagli dei tassi da parte della Fed quest’anno, mentre il Segretario al Tesoro Scott Bessent ha già dichiarato: “Stiamo portando i tassi giù”. Se le tensioni sui dazi dovessero raffreddare l’economia americana, la banca centrale potrebbe essere costretta a rispondere con una politica monetaria più accomodante.

Il passato dimostra che i dazi difficilmente riscrivono le sorti di un’economia, ma accelerano trasformazioni già in atto: diversificazione delle supply chain, riallocazione della produzione e nuove strategie commerciali. Il tutto mentre l’inflazione resta il convitato di pietra, pronto a rientrare in scena se la Fed si muovesse troppo velocemente.

Ogni guerra commerciale ha i suoi vincitori apparenti e i suoi perdenti reali. Ma il mercato, come sempre, troverà un nuovo equilibrio.

Microcredito

per le aziende

 

Gabriel Debach
eToro Italian Market Analyst

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