La MalaItalia include i giudici e la sinistra


È passato inosservato un libro che fa la storia di Tangentopoli, scritto da un inviato speciale de la Repubblica che per tanti anni seguì in prima linea Mani pulite e si trovò tempestato di querele. Sto parlando di Enzo Cirillo, autore di un libro uscito da poco: “Mani pulite. Fu vera gloria?” edito da Gangemi col sottotitolo “perché non è mai morta la prima repubblica e perché l’Italia rischia”.

Ma come, il libro di una firma di Repubblica contro la corruzione che passa in silenzio? Si, perché sostiene tre tesi non proprio in linea col mainstream. La prima è che Tangentopoli coinvolse appieno la sinistra, anche se fu risparmiata nelle inchieste giudiziarie e mediatiche. La seconda è che la magistratura non era la parte sana che indagava la parte malata delle istituzioni, ma era pienamente dentro quel potere e lottava per la supremazia. La terza è che la corruzione non fu sradicata affatto ma ha continuato imperterrita anche dopo Mani Pulite.

Percorro in grandi linee le tesi di Cirillo. Per cominciare, la corruzione che passava dal ministero dei lavori pubblici (e dei favori privati) arricchiva tutti, “rubavano tutti”; e la corruzione politica fece da volano al salto di qualità di Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta e alla loro longa manus nella pubblica amministrazione.

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Il libro si apre con una citazione di Luciano Violante: “Noi magistrati eravamo pronti a prendere il potere in Italia. Dopo Tangentopoli aspettavamo il passaggio del testimone”. Lo stesso Violante, passato dalla toga al Pds, sposta le aspettative di ricambio dal piano giudiziario al piano politico e afferma: “Aspettavamo, noi del Pci-Pds che la mela cadesse. Puntavamo sui benefici di mani pulite”, non cogliendo quel che invece Bettino Craxi aveva ben colto: la disgregazione dei partiti trascinerà e delegittimerà tutti. Infatti arrivò il Cavaliere outsider con le opposizioni non coinvolte in Mani pulite, vale a dire l’Msi e la Lega, più i sopravvissuti del pentapartito non assorbiti dalla sinistra.

Oltre le spartizioni trasversali, Cirillo cita anche altre pagine del malaffare che coinvolsero imprenditori sotto l’ombrello protettivo della sinistra. È il caso di Carlo De Benedetti, all’epoca editore de la Repubblica, “finito nel grande proscenio della corruzione che flagellava l’Italia” e sentito a San Vittore da Tonino Di Pietro. Ne nacque pure un’intervista di Giampaolo Pansa all’editore che aveva ammesso di aver pagato tangenti. La difesa dell’editore-finanziere fu che se avesse provato a rivelare il sistema delle tangenti “mi avrebbero distrutto”; dunque per sopravvivere meglio l’omertà e la partecipazione al gioco… L’intervista è dura ma chi ne esce bene è l’intervistatore, Pansa, non certo l’intervistato, e il suo gruppo.

È pure il caso dei Benetton, legati al Pd e al gruppo L’Espresso, e della tragedia del ponte Morandi, con 43 morti, dopo più di vent’anni di gestione della società autostrade con profitti per decine di miliardi. Cirillo si addentra nella vicenda e nella manutenzione mancata del ponte, col finale salvacondotto firmato dal governo giallo-rosso. A la Repubblica di De Benedetti, si affianca l’Unità, ancora organo del Pci, poi Pds, “un giornale – scrive Cirillo – indispensabile e utile per disarticolare il dissenso e distruggere professionalmente e umanamente i nemici, in ossequio alle verità inoppugnabili del Bottegone, ma se necessario anche randello mediatico per amici poco ortodossi e alleati riluttanti o troppo autonomi per accettare la leadership culturale e politica del Pci”.

C’è poi il capitolo dei “faccendieri falce e martello”: “la lunga strada del business tra consulenze, voti di scambio, mazzette, appalti miliardari e occupazione dei posti di comando e gestione nasce e si sviluppa, a sinistra, a partire dagli anni ottanta”. Ovvero, faccio notare, da quando si chiuse il generoso rubinetto sovietico, le mediazioni sull’export-import con l’est, gli aiuti di Mosca. Ma per dirla in sintesi con il titolo di un capitolo: “Corruzione. Il Pci-Pds era parte del sistema”.

“Si inizia con le cooperative emiliane per finire a D’Alema, Renzi ed Emiliano, il presidente della Regione Puglia…passando per Carrai e il suicidio-omicidio di Davide Rossi del Monte dei Paschi di Siena. Matteo Renzi è il più fantasioso. D’Alema il più grezzo e arrogante”. Eccoli, “i piazzisti d’Arabia”: altro che rottamazione e discontinuità, siamo in piena continuità. Sorse un conflitto tra la linea di d’Alema che difendeva (come Craxi) il primato della politica e la linea giustizialista di Violante. Al pool di Mani pulite, commenta Cirillo “mancò il coraggio di sedersi sulle macerie di un sistema dove anche i magistrati avevano giocato la loro partita sporca”. Chi non era di sinistra è finito in galera per traffico d’influenza, collusioni, voti di scambio e via dicendo. A sinistra, invece l’hanno fatta franca quasi tutti.

Il libro si conclude senza happy end, anzi: l’Italia del Malaffare non fu affatto sgominata con Mani Pulite ma prosegue ancora, con la sinistra ancora coprotagonista. “Il sistema della tangenti si spezza ma non crolla” dopo le inchieste giudiziarie. Molti gli episodi recenti citati.

Perché ho ripreso questa ricostruzione di Tangentopoli? Perché per capire il presente dobbiamo capire meglio il passato che lo ha prodotto. E per capire le tensioni odierne tra politica e magistratura di oggi dobbiamo tornare alle tensioni di ieri e ai moventi, che non sono cambiati. Serve conoscere quella storia per capire il ruolo di potere della sinistra anche oggi, nell’epoca Meloni. Tangentopoli non fu una guerra tra i corrotti e gli onesti, tra guardie e ladri, ma un conflitto di poteri, anzi una contesa per la supremazia in Italia; quasi un derby. Poi, certo, ci sono da distinguere gradi e livelli diversi di corruzione e responsabilità.

Faccio notare che la sinistra nel nostro Paese ha giocato su due tavoli, anzi tra un tavolo e sottobanco: da un verso partecipava alla spartizione del potere e dei vantaggi derivati dal malaffare e dall’altro portava all’incasso la sua posizione di partito moralizzatore e anti-corrotti, ergendosi al ruolo di giudice in un processo in cui avrebbe dovuto essere coimputata. La vera accusa da rivolgere sul piano storico e politico alla sinistra non è dunque solo di aver partecipato al malaffare, ma di aver giocato due parti in commedia, ossia una partita doppia, ambigua, succhiando sia i benefici pratici del malaffare che i benefici etici contro il malaffare. Con una mano rubava e con l’altra puntava l’indice accusatore.

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La Magistratura e i suoi alleati in alto loco non hanno combattuto una battaglia nel nome della giustizia contro l’illegalità, ma una guerra per l’egemonia giudiziaria, interna al Palazzo. Lo confermò Giovanni Pellegrino, esponente dei dem e all’epoca presidente della commissione autorizzazioni a procedere e poi della commissione stragi. La molla di Mani pulite, dichiarò, fu il primato del potere giudiziario, “in contrasto col disegno costituzionale”. E su Tangentopoli: “Apparentemente il mio partito non prendeva soldi, però nella cordata vincitrice di ogni appalto c’era sempre una cooperativa rossa con una percentuale dei lavori dal 10 al 15%”.

Non so se davvero, come sostiene Cirillo, sia ancora vivo come allora il malaffare ma so che anche oggi non siamo dotati di anticorpi per fronteggiare il malaffare: ossia forti motivazioni politiche e ideali, rigorosi criteri di selezione e rotazione della classe dirigente, basati sulla capacità e sulla qualità e non sull’affiliazione servile; la lungimiranza di chi sa vedere oltre il “particulare” e oltre il presente, alla storia e a quel che lasciamo in eredità a chi verrà dopo. Senza questi tre fattori, la politica è ancora esposta al malaffare, a destra come a sinistra.

La Verità – 5 marzo 2025

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