La pressione fiscale è uno degli indicatori più utilizzati per commentare le politiche fiscali. Si tratta di una percentuale apparentemente molto semplice, pari al rapporto tra le entrate fiscali (tributarie e contributive) e il Pil del paese. Quando questo cresce, segnala un maggior peso del prelievo fiscale sull’economia, e viceversa.
Ma, come accade per molti altri indicatori, la sua interpretazione non è così ovvia e univoca, specialmente in un paese come il nostro dove una parte significativa del Pil corrisponde a ricchezza “sommersa”, ovvero prodotta dall’economia in nero e dall’evasione fiscale (c’è anche un sommerso “statistico” dovuto a errori di misurazione).
Poiché le imposte e i contributi li pagano lavoratori e datori di lavoro che agiscono nell’economia regolare, e invece non li paga l’economia sommersa, la pressione fiscale che comunemente leggiamo è solo apparente: quella reale è molto più elevata. Per pressione fiscale reale intendiamo il rapporto tra entrate e Pil emerso, ovvero la differenza tra Pil totale e Pil sommerso.
Prendiamo, ad esempio, il dato da poco comunicato dall’Istat, secondo cui la pressione fiscale nel 2024 è stata pari al 42,6 per cento. Non sappiamo ancora qual è la stima dell’Istat riguardante l’economia sommersa nel 2024, ma, se questa fosse rimasta costante ai valori del 2022 (gli ultimi noti), cioè all’8,5 per cento, la pressione fiscale reale del 2024 supererebbe il 46,5 per cento.
Dovrebbe anche essere chiaro, a questo punto, che se, a parità di Pil, l’economia sommersa si trasforma in economia regolare, e quindi comincia a pagare le tasse, la pressione fiscale apparente cresce (mentre quella reale rimane costante). Dovremmo quindi imparare a distinguere la pressione fiscale reale da quella apparente.
I limiti di Meloni
Questo ragionamento ci porta a commentare le affermazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni secondo cui la crescita della pressione fiscale (apparente) dal 2023 (in cui era pari al 41,4 per cento) al 2024 (in cui ha raggiunto appunto il 42,6 per cento) sarebbe stata dovuta alla maggiore occupazione, grazie ai provvedimenti del governo stesso.
Il meccanismo sarebbe appunto quello illustrato in precedenza: se l’economia sommersa diventa regolare, la pressione fiscale cresce. Questo è indubbiamente vero, ma per capire quanto questo fenomeno possa spiegare l’incremento della pressione fiscale (apparente) nel 2024 bisogna guardare i numeri con attenzione. E qui il ragionamento di Meloni mostra qualche limite.
Seguendo la sua logica, proviamo a chiederci quanto dell’incremento di prelievo osservato tra il 2023 e il 2024 possa essere effettivamente dovuto all’aumento dell’occupazione. Secondo gli stessi dati Istat, nel 2023 il prelievo complessivo è ammontato a 883 miliardi, mentre le unità di lavoro ammontavano a 24,535 milioni, per un prelievo pro capite pari a circa 36mila euro.
Nel 2024, invece, le unità di lavoro sono cresciute a 25,1 milioni circa. Il ragionamento di Meloni è il seguente: la crescita delle unità di lavoro è la spiegazione della crescita del prelievo (e quindi della pressione fiscale apparente). In realtà, se moltiplichiamo le unità di lavoro del 2024 (25,1 milioni) per il prelievo pro capite del 2023 (36mila euro), otteniamo un prelievo ipotetico di circa 902,3 miliardi.
Ma il prelievo nel 2024 è aumentato molto di più, arrivando a 933,5 miliardi, e quindi la “spiegazione” di Meloni spiega, in realtà, meno del 40 per cento dell’incremento osservato del prelievo. Si noti che questa percentuale si ottiene ipotizzando che l’incremento delle unità di lavoro sia interamente dovuto a quelle regolari, cosa che non è affatto certa, visto che la distinzione tra unità di lavoro regolari e irregolari sarà resa nota in futuro.
Non solo, ma se rapportiamo i 902,3 miliardi (cioè il prelievo a cui saremmo arrivati se quello pro capite fosse rimasto costante rispetto al 2023, ma tenendo conto dell’aumento delle unità di lavoro) al Pil del 2024, la pressione fiscale sarebbe dovuta rimanere sostanzialmente costante (anzi, in leggero calo) rispetto a quella del 2023.
Com’è andata per davvero
Ciò che presumibilmente è successo è l’incremento del drenaggio fiscale, o fiscal drag, ovvero l’incremento del prelievo che avviene naturalmente in tempo di inflazione.
Dato che, in attuazione del principio di progressività, le imposte tendono ad aumentare (in quota) rispetto al reddito, la pressione fiscale (sia apparente sia reale) tende a crescere in epoca di inflazione, perché il numeratore cresce più del denominatore. Si tratta di un fenomeno noto, che pone qualche problema alla politica e ai governi, perché questo drenaggio è particolarmente dannoso per i lavoratori dipendenti a basso reddito.
In conclusione: giusto interpretare il dato della pressione fiscale, ma se si vuole sostenere una tesi (e con una certa supponenza) bisognerebbe anche avere l’umiltà di sporcarsi le mani con i numeri veri che quella tesi utilizza e con le realtà che questi rivelano.
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