Sassari Non bisogna stupirsi troppo se il mercato dell’auto in Sardegna e in tutta Italia è in crisi, se un’azienda come Stellantis è in ginocchio e se il comparto dell’elettrico non è mai decollato (appena 3mila esemplari venduti nell’isola, lo 0, 3% del mercato). Per Nicola Armaroli, 58 anni, emiliano, direttore della rivista scientifica Sapere, dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40) e massimo esperto e divulgatore per quanto riguarda il settore delle rinnovabili e la transizione ecologica, basta fare un semplice test: «Provate a entrare in un autosalone e chiedete di acquistare una vettura elettrica. Ti trattano come un appestato, ti cacciano via con i forconi. Quando mai si vede esposto un modello elettrico? Nella testa dei venditori, così come nell’immaginario collettivo degli acquirenti, il top dell’auto è sempre il dieselone tedesco. Le case produttrici ce la raccontano così, il Governo continua nel suo approccio conservatore, con campagne di sostegno all’industria automobilistica di massa, come la Fiat. C’è un’incomprensibile chiusura all’innovazione, prevale un terribile istinto di conservazione, difendiamo il nulla e così ci facciamo del male. Perché il dieselone è un modello che ha fatto il suo tempo: ha raggiunto un limite massimo in termini di efficienza, prestazioni e abbattimento dell’inquinamento, superabile solo marginalmente. Non dimentichiamo episodi come il dieselgate, dove per mascherare i limiti del motore tradizionale si sono persino truccati i dati sulle emissioni. Quello è stato il punto di non ritorno».
E le macchine elettriche?
«Ciò che le persone spesso faticano a comprendere è che l’auto elettrica è, essenzialmente, una batteria con le ruote. Lo sviluppo tecnologico di queste auto è quindi strettamente legato alla tecnologia delle batterie, che è in continua evoluzione, con nuove prospettive chimiche che si stanno sviluppando. Ad esempio, le batterie al sodio, come quelle al sodio-ferro-fosfato, rappresentano una possibile alternativa. Lo sviluppo delle batterie agli ioni di litio è stato talmente dirompente negli ultimi anni che oggi possono essere caricate velocemente, anche a casa, offrono grande versatilità e consentono di trasportare 5 persone e una macchina piena di valigie per lunghi tragitti senza dover ricaricare, se ci si mantiene entro distanze ragionevoli. A breve si abbatterà anche la barriera dei 700 chilometri, che è la percorrenza di un pieno di carburante. E cadrà anche l’ultima scusa per non passare all’elettrico, cioè la minore autonomia rispetto al diesel o al benzina. E costeranno sempre meno, così come è successo per i telefonini».
Lei possiede auto elettriche ormai da tanti anni. Perché la gente è così scettica e non le compra?
«Innanzitutto perché non le ha mai provate. Tutti gli amici ai quali le ho fatte guidare, sono rimasti sbalorditi. Sono delle astronavi in confronto alle termiche: hanno molta più ripresa, sono silenziose, più tecnologiche e hanno una maggiore fluidità nella guida. Date in prova per una settimana un’auto elettrica, e vediamo cosa sceglie il cliente. Ormai anche i costi sono accessibili, e certamente i prezzi sono inferiori ai suv tedeschi. La Tesla costa meno di un’Audi».
Che scenario immagina per i prossimi anni?
«Diversi marchi europei non esisteranno più, Stellantis verrà spazzata via, faranno la fine della Nokia, che non è riuscita a leggere il cambiamento. Protagonista sarà l’industria cinese, la prima a muoversi sull’elettrico, e si affermerà con prodotti di alta gamma».
Perché la Cina ha una marcia in più?
«La Cina ha saputo cogliere con largo anticipo l’importanza della transizione verso l’auto elettrica. Già vent’anni fa, il paese ha riconosciuto di non disporre di riserve petrolifere sufficienti per sostenere il suo sviluppo economico. Inoltre, non poteva contare su una forte industria automobilistica tradizionale. Di fronte a queste sfide, ha deciso di puntare strategicamente sulle batterie, una tecnologia in grado di alimentare un nuovo tipo di mobilità. Oggi, la Cina domina il mercato delle batterie grazie a questa visione lungimirante, e alla capacità di anticipare il futuro. Questa scelta ha permesso alla Cina di ridurre significativamente la dipendenza dall’importazione di petrolio».
E in Europa e in Italia?
«Qui la transizione elettrica richiederebbe una guida chiara. Il termine ultimo del 2035, spesso frainteso come un’imposizione per i cittadini, è in realtà un segnale rivolto al settore industriale: prepararsi a produrre solo veicoli elettrici entro quella data. Non si tratta di obbligare il cittadino a cambiare auto, ma di garantire che l’industria sia pronta per un cambiamento inevitabile. E le case produttrici sarebbero anche pronte a portarlo avanti. Ma questa transizione incontra resistenze, soprattutto da parte dell’industria petrolifera, che ha molto da perdere. Il petrolio è ancora la “materia prima” che i consumatori acquistano in quantità enormi. Per esempio, ogni volta che facciamo il pieno, compriamo decine di chili di combustibile, e l’intero sistema economico di queste aziende dipende dalla nostra continua domanda. L’80% del petrolio va a muovere automobili e furgoni. Quindi per loro, bloccare la transizione, è una questione di vita o di morte. Pensate a questo: in una settimana io posso acquistare al massimo 5 chili di patate, ma sono sicuro che comprerò almeno 50 litri (kg) di carburante. La lobby del petrolio non può perdere un cliente così vorace. Solo che poi il gasolio non è come la buccia di patate: si volatilizza, diventa CO2 che è incolore e inodore e non si vede. Inquina e devasta, ma in silenzio».
In Sardegna c’è un acceso dibattito sulla transizione energetica: sull’eolico e il fotovoltaico c’è uno scetticismo simile a quello verso le auto elettriche. E si parla di una fase a metano prima della dismissione delle centrali termiche. Qual è la sua opinione a riguardo?
«Dico che è follia pura. Chi parla di assalto eolico e di necessità di ricorrere al metano come fonte indispensabile alla transizione, sta truffando i sardi. Chi racconta queste menzogne lo fa solo per tutelare i propri interessi, fregandosene dell’ambiente e dei cambiamenti climatici. Bastano alcuni dati per dimostrarlo: nel 2023 il fotovoltaico ha fornito il 12% della produzione elettrica italiana, l’eolico il 9,1%. Il primo ha occupato 164 km2 di terreni, pari allo 0,05% del territorio nazionale: i due terzi degli impianti sono sui tetti. Il secondo occupa 10 volte meno superficie a terra a parità di produzione, quindi i numeri sono marginali. L’eolico ha invece un problema di occupazione di “spazio visivo”. Uno scenario 100% rinnovabile al 2050 stima che eolico e fotovoltaico dovrebbero fornire 450 TWh occupando lo 0,8% del territorio nazionale, meno di 2500 km2. Per capire di cosa stiamo parlando: oggi in Italia ci sono 9000 km2 di siti industriali dismessi e 35000 km2 di terreni inutilizzati o incolti. Allora, a conti fatti, qual è la vera devastazione ambientale? ».
E il metano?
« Il metano è un gas serra decine di volte più potente della CO2. Ha un impatto peggiore del carbone. Il pozzo di estrazione e il consumatore finale oggi distano spesso migliaia di chilometri. Lungo la catena che li connette, cioè Texas-Porto Torres (tubi, navi, compressori, valvole, impianti di trattamento, liquefazione e rigassificazione) il metano trova numerose vie di fuga in atmosfera. A livello mondiale, la stima delle perdite di metano nell’industria energetica ammonta a 140 miliardi di metri cubi, ovvero più della somma dei consumi di Italia e Germania. Il metano non è pulito neanche quando brucia: genera polveri ultrafini, formaldeide, ossidi di azoto. Utilizzarlo sarebbe un enorme passo indietro».
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