Hai un’impresa e ti sembra di lavorare solo per la gloria? Ecco un metodo semplice per capirlo


Sembra banale, ma non lo è affatto per il piccolo imprenditore del nostro Paese. È come se vivesse in un’eterna corsa su un tapis roulant: macina chilometri ogni giorno, fatica, suda, lotta contro il tempo e le scadenze. Eppure, alla fine, si guarda intorno e si accorge di essere sempre fermo nello stesso punto. Essere imprenditori significa creare valore attraverso il profitto, ma non basta far crescere l’azienda come un albero rigoglioso se le radici della propria ricchezza personale restano secche. Un’impresa di successo che non arricchisce chi la guida è un paradosso, una macchina perfetta che corre a vuoto.

Eppure, molti piccoli imprenditori sembrano non voler vedere questa verità. Immersi nel vortice quotidiano di ordini, clienti, fornitori e conti da far quadrare, finiscono per perdere di vista la domanda più importante: “Sto costruendo ricchezza per me e per la mia famiglia o sto solo mandando avanti un’attività che alla fine non mi lascerà nulla?”. Ogni 31 dicembre, il bilancio aziendale racconta una storia: “di quanto è aumentato (o diminuito) il valore della mia azienda? Ma ce n’è un’altra, più intima e decisiva, che spesso viene trascurata: quanto è cresciuto il mio patrimonio personale?”. Se la risposta è negativa, allora vale la pena chiedersi: “per cosa diavolo mi sto sbattendo dalla mattina alla sera?”

Esiste un metodo semplice per valutare se il proprio lavoro ha portato a un reale miglioramento della condizione economica personale. Eppure, molti imprenditori si rifiutano di guardare la realtà in faccia, convinti che il solo mantenere in piedi l’azienda sia già un successo. Ma non rendersi conto della progressiva erosione patrimoniale non è solo un errore di gestione, è un danno che si ripercuote su se stessi e sulle generazioni future.

Per questo, il mio approccio non è morbido né consolatorio. Uso una sorta di pressione psicologica violenta, un vero e proprio shock, per costringere gli imprenditori più resistenti al cambiamento ad aprire gli occhi. Li metto di fronte ai numeri, alla crudezza dei fatti: “Sei sicuro che la tua azienda stia davvero creando valore per te? Sei certo che non stai solo lavorando per pagare dipendenti, fornitori e tasse, mentre il tuo patrimonio personale si sgretola anno dopo anno?”.

Solo così riesco a smuoverli dall’inerzia. Solo quando sentono sulla pelle l’angoscia di un futuro in cui, dopo una vita di sacrifici, potrebbero ritrovarsi senza nulla, cominciano a reagire. E il primo passo per farlo è capire che non basta far quadrare il bilancio aziendale: bisogna assicurarsi che l’impresa sia uno strumento per costruire ricchezza personale e non una gabbia che trattiene il proprio valore senza mai restituire niente.

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Il metodo consiste nel fare la fotografia patrimoniale della famiglia alla fine dio ogni anno solare. Per realizzarla, basta suddividere il proprio patrimonio nelle due macro-categorie:

  1. L’attivo, che comprende:
    • Il valore prudenziale degli immobili personali (prima casa, casa al mare, box, garage, ecc.).
    • Il valore prudenziale di beni mobili di valore (quadri, gioielli, barche, automobili, moto, ecc.).
    • Crediti da riscuotere per prestiti fatti a parenti o per finanziamenti fatti proprio all’azienda
    • Saldi attivi dei conti correnti personali.
    • Risparmi tenuti in casa
  2. Il passivo, che include:
    • Debiti residui di mutui o tasse rateizzate.
    • Debiti da onorare per prestiti ricevuti da parenti o dalla stessa azienda familiare
    • Eventuali scoperti di conto corrente.

Se confrontando il patrimonio netto con l’anno precedente si nota un calo, la verità è semplice: avete lavorato per la gloria.

Molti imprenditori si aggrappano all’idea che il valore della loro azienda sia una garanzia per il futuro, come se bastasse possedere un’impresa per mettere al sicuro se stessi e la propria famiglia. Ma la realtà è un’altra, spesso più crudele. Basta una crisi improvvisa, una congiuntura sfavorevole o una resistenza al cambiamento per vedere svanire in un soffio ciò che si è costruito con anni di sacrifici, notti insonni e giorni di battaglie.

Il piccolo imprenditore deve capire che accumulare ricchezza personale non è egoismo, è un dovere morale. Un dovere verso i figli, i nipoti, le generazioni che verranno e che non possono pagare il prezzo degli errori di oggi. Lavorare solo per far sopravvivere l’azienda, senza costruire un vero patrimonio personale, significa tradire la responsabilità che ogni imprenditore ha nei confronti della propria famiglia.

Il rischio? Ritrovarsi, un giorno, senza nulla in mano, con un’impresa svuotata di valore e con i propri cari costretti a raccogliere i cocci di un sogno che avrebbe dovuto proteggerli, non metterli in difficoltà.

Non basta lavorare duro, sacrificarsi, stringere i denti. Bisogna lavorare con intelligenza, con visione, con responsabilità. Perché la vera misura del successo non è il fatturato aziendale, ma la crescita della ricchezza personale, l’unica vera eredità che possiamo lasciare a chi verrà dopo di noi.

Molti imprenditori resistono a questa analisi perché pensano che il valore della loro azienda sia sufficiente a garantire il futuro. Ma una crisi improvvisa, una congiuntura sfavorevole o semplicemente una cattiva gestione del patrimonio possono erodere rapidamente quanto costruito in anni di sacrifici. Il piccolo imprenditore deve capire che accumulare ricchezza personale non è egoismo, ma una necessità strategica e un dovere morale. Senza questa consapevolezza, si finisce per sacrificare tutto in nome dell’azienda, ritrovandosi poi senza un vero patrimonio personale e, spesso, con un’impresa poco redditizia. Non saranno contenti figli e nipoti, anche quando non ci sarete più.

Non basta lavorare duro: bisogna lavorare con intelligenza. E la vera misura del successo non è il fatturato aziendale, ma la crescita del proprio patrimonio personale.



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