Donne e lavoro. C’è ancora molto da fare


Una riunione di lavoro (Foto di Campaign Creators su Unsplash)

Le donne sono discriminate nel lavoro? Nonostante i cambiamenti registrati nell’ultimo secolo che ha visto l’ingresso delle donne in professioni un tempo ritenute di esclusivo appannaggio degli uomini, la parità tra uomo e donna nei luoghi di lavoro è ancora un obiettivo irrealizzato.
Ne parliamo con la Consigliera di parità della Regione Umbria Rosita Garzi che pur non amando leggi che tutelino le donne ritiene che “a volte per la diffusione di un valore è necessario che si parta anche da questo”.

Garzi è sposata, ha quattro figli e sa, per esperienza diretta, cosa significa lavorare facendosi carico anche della cura della famiglia. Docente di Sociologia del lavoro all’Università di Perugia, nel luglio 2022 è stata nominata Consigliera di parità della Regione Umbria, una figura istituita nel Codice delle pari opportunità (D.Lgs.198/2006 e successive modifiche).

Garzi, di cosa si occupa una “Consigliera di parità”?

“Di tutto ciò che ostacola la possibilità di accesso, di mantenimento, di carriera e che impedisce alle donne, e anche agli uomini, di progredire nella propria posizione lavorativa. Aggiungo gli uomini perché abbiamo registrato in questi ultimi anni anche qualche caso di discriminazione verso gli uomini padri. Lo segnalo perché riporta al centro della discussione una discriminazione che è spesso legata ai carichi di cura, non solo verso i figli, ma anche verso gli anziani che cominciano ad essere una fetta importante della popolazione”.

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Donne: prime a scuola ma non al lavoro

I dati ci dicono che nel percorso di formazione le ragazze sono sempre un passo in avanti rispetto ai ragazzi. Questo vantaggio però si perde nel momento in cui entrano nel mondo del lavoro…

“Purtroppo sì, perché la formazione, che spesso non è quella più richiesta sul mercato del lavoro, quella che viene dalle discipline scientifiche, matematiche, tecnologiche (Stem). Ma c’è anche un problema specifico, quello di una normativa pensata per aiutare le donne nei loro carichi di cura, che sono i congedi di maternità, ma che diventa discriminatoria perché è più generosa per le donne che per gli uomini”.

Di recente le aziende si attivano per ottenere la Certificazione per la parità di genere. Ci può spiegare di che si tratta?

“La Certificazione per la parità di genere è regolata dalla UNI/PdR 125 del 2022, introdotta dal PNRR. Prevede azioni concrete, per esempio sul piano contrattuale per una presenza paritaria di donne e uomini anche in funzioni strategiche e apicali, o politiche aziendali di welfare a sostegno della genitorialità (madri e padri). Questa certificazione aveva l’obiettivo di raggiungere 800 aziende in tutta Italia entro il 2026, ma siamo orgogliosi del fatto che ad oggi, 28 febbraio 2025, abbiamo già 5.200 aziende italiane certificate. L’obiettivo fondamentale è di passare dalla norma al valore, e un valore viene misurato sulla base di un comportamento. Le Consigliere di parità regionali ma anche nazionale e provinciali monitorano la conservazione della certificazione ovvero che non venga meno nei fatti oltre che nella attuazione di una normativa tecnica”.

C’è un vantaggio diretto per le aziende nell’ottenere questa certificazione?

“Sì, ci sono delle premialità e degli sgravi fiscali, diverse agevolazioni che possono aiutare le imprese.È un ottimo strumento che può aprire la strada all’apprendimento di un comportamento che faciliti l’interiorizzazione di un valore. Che è lo scopo ultimo della normativa”.

In Umbria quante sono le aziende certificate?

“Purtroppo abbiamo solo dati nazionali. Per l’Umbria quello che posso rilevare è che abbiamo già una buona partecipazione al processo di certificazione da parte non solo di grandi aziende ma anche di aziende piccole e di aziende che sono pubbliche o partecipate, per esempio Gesenu e SviluppUmbria. Stiamo andando nella giusta direzione”.

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Uomini poco consapevoli

Il tema della parità di genere è passato anche nella consapevolezza maschile?

“Difficile rispondere in poche parole. Possiamo dire che cominciamo a registrare nei vari contesti una partecipazione più numerosa di uomini che si interessano a questo tema, che hanno capito che il coinvolgimento del genere femminile in tutti i livelli del contesto lavorativo dà valore economico, sociale, culturale. Siamo però ancora lontani dalla consapevolezza culturale generalizzata. Io non sono mai stata una grande amante di leggi come quelle sulle ‘quote rosa’, ma a volte per la diffusione di un valore è necessario che si parta anche da questo”.

Donne lavoratrici e madri? Si può, anzi…

Parlare di donne e lavoro richiama il tema della maternità perché ancora c’è l’idea che per lavorare la donna rinuncia ai figli. È così?

“Sono diversi decenni che la statistica viene incontro con dei numeri che riportano dei fatti. Quando una donna lavora c’è più disponibilità economica ma anche di carattere personale, nel mettere a mondo i figli. In vari contesti europei in cui ci sono tassi di occupazione più elevati tra le donne si registrano anche tassi di fecondità più elevati. C’è un problema anche di politiche sociali, di welfare, di aiuto che giocano un ruolo determinante, ma se le donne sono messe in condizioni di poter lavorare hanno anche maggiori disponibilità a fare i figli”.

In Italia non sembra così facile…

“Nel nostro Paese le donne che lavorano sono veramente libere di fare i figli? Prima di diventare madri le donne entrano nel mercato del lavoro. E lì che cosa succede? Cosa accade che fa cambiare il desiderio di un progetto di vita condivisa con un compagno, un marito, e preveda anche dei figli? C’è ancora una forte discriminazione da parte del mercato del lavoro nei confronti delle mamme che hanno figli a carico come c’è una forte spinta al parttime involontario. Sono questioni molto delicate legate alla mancanza di libertà di fare i figli”.

Conciliare? No, piuttosto armonizzare lavoro e vita

Le cose stanno cambiando? Oggi i giovani spesso scelgono il lavoro non pensando solo al guadagno ma anche alla qualità della vita…

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“Per fortuna si sta diffondendo sempre di più una cultura attenta allo stare bene nel luogo di lavoro, con la consapevolezza che ormai il tempo libero e la vita in pensione è un miraggio, quindi è bene vivere bene nel proprio contesto lavorativo perché quello fa parte della propria vita. Ecco perché non mi piace utilizzare il termine ‘conciliazione’ vita /lavoro. Non c’è nulla da conciliare, non c’è una sfera in conflitto con un’altra, qui si tratta di armonizzare tempi, competenze, capacità, abilità, vita quotidiana perché quella è quella che noi viviamo sia al lavoro che dentro le case”.



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