Nel cellulare di David Yambio, tra gli organizzatori della rete di migranti, c’è una miniera di informazioni su persone in Libia. Ha saputo da Apple di essere spiato da un malware. Che ha solo il governo
David Yambio, rifugiato sud-sudanese in Italia e fondatore della ong Refugees in Libya, è uno degli spiati attraverso la spywar Paragon, non si sa da chi. Il 13 novembre Apple l’ha avvisato che nel suo cellulare era entrato un potente virus spia. Lui è tra le vittime del torturatore libico Almasri ed è uno dei firmatari delle denunce alla Corte penale internazionale contro il criminale sottratto dal governo Meloni alla Cpi con apposito volo di Stato che l’ha accompagnato in Libia al riparo dal processo.
Invitato l’11 febbraio al Parlamento europeo di Strasburgo dall’eurodeputato francese dei Verdi Mounir Satouri, David Yambio ha raccontato in sintesi la sua storia: “In Sudan ero un bambino soldato, sono fuggito. Quando sono arrivato in Libia, sono stato torturato, ridotto in schiavitù. Ho provato ad attraversare il Mediterraneo per cinque volte, ogni volta sono stato sequestrato in mare dalla Guardia costiera libica finanziata dall’Ue e riportato indietro. In Libia sono stato venduto come schiavo e mandati alla base aerea di Mitiga, sotto Osama Almasri Najim, capo della polizia giudiziaria libica e lì sono stato costretto a lavorare nell’edilizia e persino al fronte, trasportando munizioni e facendo tutte cose disumane. Sono stato personalmente torturato da lui stesso in diverse forme”. Ha detto al parlamento europeo David Yambio: “Ora sono, in Italia, in un Paese che mi sta spiando e invia le mie informazioni private a un torturatore che mi sta cercando?”. Nel suo telefono c’era una miniera di informazioni su tante persone in Libia e altrove, esposte a ritorsioni e violenze, che lo cercano tramite Refugees in Lybia, rete di migranti che si sono autoorganizzati per difendersi. Una ricerca su campo fatta sul campo per lungo tempo in Tunisia dai ricercatori e attivisti dell’associazione Memoria mediterranea racconta come su ispirazione di Refugees in Lybia è nata in Tunisia Refugees in Tunisia. L’intero documento lo potete leggere sul sito memoriamediterranea.org e su Melting pot, nella rubrica Resistenze ai confini in cui ogni mese vengono raccontate storie con testimonianze dirette.
Spiega Med.Mem: “In Tunisia, l’assenza di una legislazione sull’asilo ha reso le persone migranti e rifugiate completamente dipendenti dalle operazioni di Unhcr e Oim, che avrebbero dovuto garantire protezione e accesso ai servizi di base. Invece queste organizzazioni si sono rivelate largamente inadeguate, limitandosi a interventi simbolici. Le poche persone che riescono ad essere registrate presso Unhcr, pur riconosciute formalmente come rifugiati o richiedenti asilo, sono rimaste senza accesso a sicurezza, lavoro e cure mediche. In molti casi, la registrazione presso Unhcr ha rappresentato un passaggio burocratico privo di concretezza, lasciando le persone esposte ad arresti, sfratti, deportazioni e stupri. Oim, da parte sua, ha promosso programmi di rimpatrio volontario assistito, che, dietro una retorica umanitaria, nascondono una funzione di sostegno al sistema di controllo migratorio europeo. In Libia, questi programmi si sono spesso sovrapposti a pratiche di detenzione arbitraria, torture e sfruttamento, alimentando un circolo di violenza e migrazione senza offrire soluzioni sicure”. Senza aiuto e rifugio, l’unica possibilità di sopravvivenza era l’autorganizzazione.
Il racconto di David Yambio
David Yambio racconta: “Non siamo stati i primi a protestare, ci sono state molte proteste nel centro di detenzione di Khoms da parte di rifugiati eritrei, somali e sudanesi. Ci sono state proteste a Zintan nel 2018, 2019. E anche all’inizio del 2020, ci sono state molte proteste davanti alla sede dell’Unhcr a Sarraj e a Gurji. Era il 2021, quando il quartiere dove vivevo chiamato Agra Garage, rifugio per decine di migliaia di rifugiati, migranti, richiedenti asilo fu attaccato dalle milizie. Non era un luogo molto adatto per abitare, c’ erano edifici di fortuna dove le persone potevano arrangiarsi e sopravvivere. Si potrebbe dire dire che la situazione ora a Sfax è simile, ma in Libia era diversa perché c’erano diversi edifici, non campi ed eravamo mescolati con i libici. Milizie affiliate a diverse entità come il Ministero dell’Interno, vennero con armi pesanti. Terrorizzarono il quartiere, ci furono raid indiscriminati, arrestarono donne, bambini, uomini. In un solo giorno ci furono almeno 5.000 catture e vennero portati nel centro di detenzione chiamato Al- Mabani.
Quindi, da quel momento, abbiamo capito che non avevamo nessun altro a cui rivolgerci. Quelli come me sopravvissuti a quel raid, sono andati alla sede dell’Unhcr a Tripoli. L’idea principale di andare lì era che non avevamo nessun altro a proteggerci. I nostri documenti, la nostra carta d’identità, la nostra sicurezza, sai, dipendevano, presumibilmente, da ciò che l’Unhcr poteva fare, poteva dire, poteva anche segnalare alla comunità internazionale. Quando ci siamo radunati lì, ero tra le prime persone che hanno bussato alla porta per dire che siamo qui, abbiamo bisogno di questo e di quello. Ci hanno fatto entrare, abbiamo fatto la riunione e poi ci hanno detto che erano dispiaciuti, che non potevano fare nulla per noi. Non si aspettavano il raid e avevano un mandato molto limitato per operare in Libia. E quindi, non potevano fornire nulla. Quando abbiamo capito questo, naturalmente, giovani come me, già abituati a questo gioco altalenante delle agenzie umanitarie, avrebbero voluto andarsene. Volevo qualcosa per me stesso. Ma fuori dall’edificio, c’erano molte donne e bambini che avevano bisogno di un riparo immediato, di una visita medica immediata. Per questo motivo, abbiamo capito che era davvero necessario, in quel momento, unirci per iniziare una protesta che rappresentasse non solo le vittime dell’attacco a Gargaresh, ma anche tutti i rifugiati in Libia.
I giornalisti che viaggiano in Libia prendono informazioni, l’Onu, l’Oim, loro erano lì, vedono tutte le sofferenze, ne parlano, ma in che modo? Non lo so. Ma ciò che abbiamo capito è che non era a nostro favore, non era nella nostra lingua. Non una lingua che parliamo come il francese, ma la lingua di qualcuno che soffre. Così, in quel momento, siamo riusciti a unirci da 11 nazionalità diverse e abbiamo iniziato la protesta. Ma prima di iniziare la protesta, dovevamo creare qualcosa che ci tenesse uniti. Dovevamo trovare persone bilingue, persone che potessero risolvere i nostri conflitti interni perché eravamo come una comunità traumatizzata. Persone di diverse nazionalità non riuscivano a parlare la stessa lingua. Dovevamo trovare posti per dormire, il che era quasi impossibile perché eravamo letteralmente nelle strade di Tripoli. Dovevamo creare un comitato di vigilanza che sorvegliasse gli attacchi delle milizie e agisse con la possibilità di dire, no, non vogliamo che veniate a prendere le nostre donne. Dovevamo trovare, ovviamente, tra più di 4.000 persone, un rappresentante di ogni comunità che si riunisse per mettere sul tavolo i bisogni e le richieste che volevamo rivolgere all’Unhcr, alla comunità internazionale, compresi i governi europei, che già sapevamo che cooperavano con le autorità libiche per la nostra carcerazione”.
“La protesta è durata più di tre mesi – continua David Yambio – e ogni giorno era un vero problema, ogni giorno dovevamo diventare molto più abili nel cercare di parlare al mondo esterno. E uno dei nostri obiettivi era immaginare di costruire un ponte sul Mediterraneo dove poter parlare con il popolo europeo e far sì che, se non ci sostenevano, almeno ci dessero una sorta di solidarietà radicale. Volevamo anche che le persone protestassero in nostro nome qui in Europa, davanti all’Unhcr, davanti al governo italiano, davanti all’ambasciata tedesca. E così è successo. Ci siamo seduti con le autorità libiche, abbiamo negoziato il rilascio dei nostri fratelli e sorelle. Stavamo guadagnando slancio, stavamo guadagnando popolarità, stavamo avendo un potere che le milizie e il governo libico non avrebbero mai immaginato che un rifugiato o un migrante potesse avere per essere in grado di sedersi e negoziare con loro allo stesso tavolo. Il 10 gennaio 2022 il movimento di protesta fu schiacciato con la forza. La gente fu picchiata, molte tende furono distrutte e bruciate e poi oltre 700 persone, per lo più donne e bambini, furono catturate e deportate al centro di detenzione di Ainzara, dove furono incarcerate per diversi mesi. Quelli di noi che sono scampati alle retate hanno continuato a creare sistemi di sopravvivenza. Nel frattempo, sono riuscito ad arrivare in Europa a giugno 2022 e abbiamo continuato ad amplificare le nostre voci, prima di tutto per difendere i nostri compagni che erano stati messi a Ainzara e, sapete, detenuti senza alcun processo. Abbiamo fatto pressioni e pressioni e alcuni di loro sono stati rilasciati di tanto in tanto, ma l’ultimo gruppo è stato rilasciato dopo quasi due anni”.
Racconta così l’autoorganizzazione in Tunisia: “Avevamo già creato una grande rete, eravamo già in contatto con le persone a Zarzis, in Tunisia. Questo era all’inizio del 2022, quando stavamo ancora protestando. Nel dicembre 2022, abbiamo avviato la Unfair Campaign. La Unfair Campaign era una campagna che guardava oltre ’Unhcr, non solo in Libia ma anche in Tunisia, Algeria, Marocco, Niger, Egitto, Giordania. Perché l’esistenza dell’Unhcr in questi paesi è stata come una macchina di contenimento in cui le persone devono aspettare più di un decennio per essere riconosciute come rifugiati. Ma durante il processo di attesa, nessuno di loro ha diritto all’istruzione, al lavoro, a vivere una vita normale come essere umano. L’Unhcr in Tunisia ha ignorato le proteste delle persone. Hanno cercato di silenziarle. Hanno cercato deliberatamente di non segnalare alla comunità internazionale che le persone qui si trovano in uno stato di emergenza e che, quindi, il processo di evacuazione deve essere avviato.
I rifugiati in Tunisia sono stati ispirati da noi, e dopo la loro evacuazione dagli shelter di Unhcr hanno occupato l’edificio dell’Unhcr a Zarzis. Sono stati sfrattati dall’edificio dell’Unhcr. Alcuni di loro sono fuggiti a Tunisi e lì di nuovo hanno iniziato un’altra protesta davanti all’Oim nei mesi successivi. E così, si sono formati e noi abbiamo dovuto dar loro il nostro stesso ombrello perché quando piove e hai un ombrello, devi riparare la persona accanto a te. E la persona accanto a noi erano i rifugiati in Tunisia. Così, con questo, le persone in Marocco, Algeria, Niger, Etiopia, Sudan, hanno iniziato a vederci non solo come un’ispirazione ma come una sorta di piattaforma dove le loro voci potevano moltiplicarsi e farsi sentire. Il motivo per cui abbiamo deciso di sostenere, in particolare, la situazione in Tunisia, è che le persone che sono ora in Tunisia sono persone che spesso hanno anche viaggiato dalla Libia alla Tunisia e sono stati detenuti, torturati e persino ridotti in schiavitù in Libia. Quando le rotte di migrazione hanno iniziato ad aprirsi maggiormente sulla rotta tunisina, molte persone che erano in Libia hanno iniziato a migrare verso la Tunisia”.
In Tunisia, spiegano i ricercatori di Memoria mediterranea “il movimento Refugees in Tunisia ha preso forma nel 2023 durante il sit-in a Tunisi, ma il movimento ha le sue origini nelle prime proteste avvenute a Zarzis, nel sud della Tunisia, a partire dal 2022. Le prime proteste di migranti in Tunisia sono iniziate il 9 febbraio 2022 davanti alla sede dell’Unhcr a Zarzis, nel governatorato meridionale di Medenine, al confine con la Libia. Inizialmente protestavano contro l’espulsione dagli appartamenti nei centri di accoglienza di Zarzis e Medenine. Dopo tre settimane di sit-in, un incontro con un rappresentante dell’Unhcr ha portato alla promessa di una soluzione. Poi, in seguito di un presunto episodio di aggressione, il direttore dell’ufficio decise di chiudere la sede e i manifestanti si sono spostati verso Tunisi per continuare il sit-in”.
Dice Joseph, un migrante: “Mi chiamo Josephus, vengo dalla Sierra Leone, sono arrivato in Tunisia nel 2019. Sono arrivato a Zarzis, non sono andato direttamente a Tunisi. Ho passato due anni e mezzo a Zarzis prima di venire a Tunisi. Sono passato per la Libia, penso di aver passato alcune settimane lì, quindi non la conosco bene. Zarzis è stato il posto in cui ho imparato il lavoro di costruzione. Per me è stato importante sapere come mettere i mattoni, e imparare un mestiere. Non era facile, ma a quel tempo non era come ora, perché c’era lavoro. Lavoravamo per 30 dinari. Con quello riuscivi a mantenerti, a pagare le bollette. Trovavi un appartamento, magari in quattro, cinque, sei, sette o otto persone, e mettevamo insieme i soldi un po’ alla volta per pagare. Quando sono arrivato per la prima volta a Zarzis, penso dopo due settimane, ho saputo che c’erano l’Oim e l’Unhcr. Così ho cercato di contattarli.
Stavo cercando di vedere se potevo ottenere l’asilo. Loro mi hanno dato un appuntamento dopo alcuni giorni. Penso anche che mi abbiano detto che ci sarebbero voluti tre mesi. Mi avevano dato il numero di un ragazzo. Ho chiamato il ragazzo. Lui mi ha chiesto di andare in un posto che si chiama Rue Ben Garden a Zarzis. Lì l’Unhcr ha una sede per alcuni rifugiati e un piccolo ufficio. Così ci sono andato, e l’uomo mi ha chiesto la mia nazionalità, da dove venivo, e cosa stava succedendo. Ho iniziato a spiegare e lui mi ha detto di aspettare. Poi mi ha detto che mi avrebbe richiamato e che ci saremmo incontrati nello stesso posto. E da allora, per più di sei mesi, non ha mai richiamato. Continuavo a chiamare, e lui continuava a dirmi di aspettare, aspettare, aspettare, aspettare. E alla fine mi sono stancato. Era il 2021. Sono iniziate le proteste a Zarzis. Io ne facevo parte, ma non parlavo e non denunciavo così tanto come recentemente. Mi sono poi spostato a Tunisi con l’arrivo di mia moglie e anche il movimento si è spostato lì. Quando siamo arrivati a Tunisi, sono andato da Oim e Unhcr. C’è un posto a Tunisi dove ci hanno detto di andare. Sono andato lì con mio figlio, e ci hanno dato un altro appuntamento. Penso che fosse un appuntamento di tre mesi. Mi hanno detto di aspettare altri tre mesi. Ci ho provato, ma non li ho mai visti darmi quel tipo di carta o accesso”.
Questo movimento, nato a Zarzis, è cresciuto a Tunisi con persone provenienti da diverse parti della Tunisia che si sono unite alla protesta. Molte persone migranti e richiedenti asilo, in particolare le donne, non hanno potuto spostarsi per impedimenti logistici o perché intimidite delle forze dell’ordine ma anche per esigenze lavorative e familiari. E’ questo il caso di Aba e di altre donne sue compagne rimaste a sud: “La nostra lotta va avanti lo stesso anche da quaggiù – dice Aba – non è che ci possiamo spaventare. Abbiamo i bambini, dobbiamo nutrirli. Abbiamo le nostre famiglie, le nostre sorelle, non possiamo smettere di andare avanti. Restare unite è l’unica maniera per non perderci”.
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