Mamme, caregiver, nonne: quella zavorra del lavoro non retribuito


Prima mamme, poi badanti, infine nonne. Perché c’è qualcosa di più nascosto dei pregiudizi, delle battutine, della violenza fisica e psicologica, delle disparità nei tassi di occupazione e nelle retribuzioni, ma che si lega a doppio filo a tutto questo: c’è un mondo di lavoro invisibile, non retribuito, che si svolge nei contesti domestici e di cura, come l’assistenza dell’infanzia, degli anziani e della casa, e che ancora oggi pesa principalmente sulle spalle delle donne.

Un lavoro che in alcuni casi si somma a quello “vero” – quello in ufficio, piuttosto che in fabbrica o in negozio – e in altri lo sostituisce completamente. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), infatti, il lavoro di cura impedisce a 708 milioni di donne nel mondo di accedere a un’occupazione retribuita. Ne impedisce dunque la libera realizzazione.

E in Italia com’è la situazione? Sempre secondo l’OIL, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. In altre parole, le donne italiane si fanno carico del 74 per cento del totale delle ore di lavoro di assistenza e cura.

L’incremento del coinvolgimento maschile nel lavoro familiare è in atto da anni, comporta una ridefinizione culturale dei ruoli di genere e quindi dell’organizzazione dei tempi di vita. Ma è un processo lentissimo. Di questo passo, secondo l’OIL, l’uguaglianza di genere nel lavoro non retribuito di assistenza e cura alla persona potrebbe realizzarsi forse nel 2066.

Un po’ di dati a Nord Est

L’impegno nel lavoro familiare ha un impatto importante sulle prospettive occupazionali delle donne, sulla loro possibilità di fare carriera e quindi sul loro reddito. Vediamo un po’ di dati.

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In Veneto, stando all’elaborazione di Ires Veneto su dati Inps relativi al 2023, il tasso di occupazione delle donne è del 62,8 per cento contro il 78 per cento degli uomini.



«La nostra regione è messa un po’ meglio rispetto alla media nazionale, ma comunque ci sono 15 punti percentuali di differenza» evidenzia la segretaria generale della Cgil Veneto, Tiziana Basso «è ancora forte la discriminazione nell’accesso al mondo del lavoro e anche quando le donne riescono ad accedervi si scontrano quasi sempre con l’esigenza personale di accudire figli o genitori anziani, e quindi con contratti part time».

E i numeri, anche questa volta, sono chiari: per i contratti a tempo indeterminato sottoscritti nel 2023 in Veneto, abbiamo 23.525 donne con part time contro 13.130 uomini e 32.425 donne con full time contro 68.840 uomini. Non va meglio nei determinati: le donne con part time sono 116.295 cono 69.595 uomini e con full time sono 146.315 contro 216.780 uomini.

La conseguenza? «Un reddito inferiore, meno contributi previdenziali e quindi una minor autonomia e libertà economica che si trascina per tutto il percorso di vita» risponde la sindacalista, sottolineando come la differenza retributiva non sia legata solo al minor orario di lavoro. «È difficile che un part time abbia ruoli di responsabilità» spiega «nel percorso di carriera ci sono meccanismi premianti che riguardano soprattutto gli uomini, proprio perché le donne hanno un maggior lavoro di cura a carico e danno meno disponibilità per straordinari e meno flessibilità».

Insomma, questa è la situazione veneta. Ma importanti differenze si registrano pure in Friuli Venezia Giulia, dove l’Istat riporta un tasso di occupazione femminile relativo al 2023 pari al 62,2 per centro, mentre quello maschile è 75,1 per cento. Un divario di quasi tredici punti.



Andando nello specifico, tra le occupate il 35,8 per cento ha contratti part time; la cifra scende al 6,7 per cento tra gli occupati uomini. Tempo pieno: donne al 64,2 per cento, uomini al 93,3. La situazione migliora leggermente nel 2024.

Se i numeri però non bastano, c’è una serie di altri sintomi che parlano di una disparità di genere che fatica a essere superata.

«Abbiamo moltissime donne che si dimettono nel primo anno di vita del bambino» racconta la segretaria veneta della Cgil «e addirittura signore che, a tre anni dalla pensione, optano per il part time per supportare i figli con i nipoti».

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«Per fortuna le cose stanno cambiando dal punto di vista culturale, ma servono interventi strutturali» ragiona la sindacalista «i bonus sono palliativi, devono essere messi a disposizione strumenti per far sì che la cura diventi un percorso condiviso e non ricada unicamente sulle donne». Tradotto: servizi di prossimità diffusi nel territorio, a partire dagli asili nido.

Tiziana Basso, segretaria Cgil Veneto

Tiziana Basso, Cgil Veneto

Da non sottovalutare, poi, il tema degli anziani. «L’invecchiamento della popolazione fa emergere nuove esigenze» mette in luce Basso «le alte rette delle case di riposo inducono spesso le famiglie a riportarsi gli anziani in casa, costringendo le donne a un maggior lavoro di cura».

In definitiva, chiude la segretaria Cgil, «il welfare pubblico può fare molto ma dovrebbe in qualche modo adeguarsi ai cambiamenti».

«Io, mamma di tre figli e la carriera stroncata: non è giusto dover scegliere tra famiglia e lavoro»

«Non è giusto nel 2025 dover scegliere tra famiglia e lavoro». Eppure Anna (nome di fantasia), 44enne vicentina, tre figli, impiegata in una grande azienda del settore finanziario, quella scelta l’ha dovuta fare. Ha sacrificato la possibilità di crescere professionalmente lavorando part time, per prendersi cura dei figli.

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Perché ha scelto il part time?

«Per una donna che si trova ad avere una famiglia è quasi impossibile lavorare a tempo pieno. E molto difficile conciliare i tempi di lavoro con quelli della famiglia».

Si occupa lei dell’assistenza dei figli?

«Sì, principalmente. Mio marito lavora in una piccola azienda, e non è così facile per un uomo prendersi spazi da dedicare al lavoro di cura. Se non avessi chiesto io il part time, avremmo dovuto appoggiarci a qualcun altro: lui non lo avrebbe avuto».

Cosa ha comportato questa scelta per la sua carriera?

«La mia carriera è stroncata. Non c’è possibilità di salire di grado se non si lavora full time. Perché quello che conta, al di là delle competenze, è la quantità di tempo che la persona può dedicare al lavoro. Soprattutto a Nord Est viene chiesto di lavorare come se non si avesse una famiglia. Il fatto di fare mezza giornata, o anche solo qualche ora in meno, ti esclude automaticamente da qualsiasi percorso di carriera. Non è giusto che una donna debba scegliere nel 2025 tra famiglia e carriera; eppure, è una scelta obbligata».

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Che si riflette anche nell’indipendenza economica della donna.

«Certo: lavori meno, guadagni meno, sei meno indipendente».

Lei avrebbe voluto far carriera?

«Beh, sì. E mi sarebbe piaciuto anche poter vedere diverse realtà, ma diventa difficile anche cambiare lavoro. Chi assume una donna con tre figli? Questo significa ancora una volta penalizzazione».

Ha subito discriminazioni nel lavoro?

«Più che altro ripercussioni a seguito di mie scelte personali. Dopo l’ultima gravidanza, a esempio, non ho più ritrovato il mio ruolo. Al momento di rientrare, mi è stato detto: non c’è più posto, non rinunciamo a un tempo pieno per un part time. Quindi sono stata spostata in un’altra filiale, più distante, e ho cambiato ruolo. È una forte penalizzazione, ti fa sentire sbagliata solo per il fatto di aver avuto un bambino».

«Ho pensato molto se fare il terzo figlio. Stavo vivendo un cambio di ufficio, che avevo chiesto per tanto tempo e finalmente mi veniva concesso. Non era il momento ideale per una gravidanza, ma in realtà non lo è mai per una donna. Ora si fanno i figli sempre più tardi, ma io lo capisco: io sono stata molto penalizzata».

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Dal suo punto di vista cosa servirebbe per cambiare le cose?

«Sicuramente mancano servizi e politiche di welfare che permettano alla donna di realizzarsi nella professione. I bonus possono aiutare, ma spostano il focus del problema: non è solo una questione economica, ma culturale. Serve un cambio di mentalità».



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