Gli italiani e il risparmio. Il popolo di formichine ci rimette un sacco di soldi


Poveri italiani! Fanno tanta fatica a mettere dei soldi da parte, ma i risultati di questo loro sforzo sono deludenti. Quando pensano di poter gestire da soli queste somme, in un paese dove la cultura finanziaria è men che zero, commettono marchiani errori e guadagnano, quando guadagnano – poco o niente. Quando poi danno retta alle tante voci, anche istituzionali, che – giustamente – gli consigliano di affidarsi ai gestori professionali (banche, assicurazioni o reti di consulenti), questi ultimi si trattengono commissioni rilevanti, ben superiori a quelle medie europee. Insomma, dovunque si voltino, gli italiani non sono fortunati con i propri risparmi.

E dire che siamo un popolo di formichine, abituato da sempre a mettere da parte dei soldi. E anche nei momenti più difficili il risparmio non è mai venuto meno. Ancora nel 2024, ben l’11 per cento del reddito prodotto – secondo i recenti dati di Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi – è stato accantonato. Un sacrificio che le famiglie fanno per i figli, per la vecchiaia e per pararsi da eventi imponderabili. Bene.

Ma quando gli italiani risparmiano vengono poi ricompensati? I loro investimenti sono appropriati? E i soldi che finiscono a operatori professionali rendono al massimo?

A tutte queste domande c’è purtroppo una sola risposta: no. Il popolo di formichine è anche un popolo ignorante di finanza. Non sa bene come investire, tiene inutilmente troppi soldi fermi sul conto corrente, al massimo compra qualche titolo di Stato che tiene nel cassetto. Mentre gli operatori professionali che gliene gestiscono una parte, di certo sono piuttosto voraci, più di quanto non avvenga all’estero e assorbono una quota eccessiva dei loro guadagni. Le istituzioni pubbliche come la Banca d’Italia e la Consob hanno un bel da fare a mettere in guardia i risparmiatori sui costi troppo elevati dei prodotti di risparmio, e ne avranno per i decenni a venire per far loro digerire qualche pillola di educazione finanziaria.

Per ora, il risultato è al di sotto delle aspettative. Intanto, su un totale di 5.628 miliardi di attività finanziarie nel 2023, ultimo anno disponibile (si trova nella Relazione della Banca d’Italia del 2024), ben 1.583, pari al 28,1% del totale, si trova fermo nei depositi bancari e in banconote. In altre parole, a parte pochi casi di chi ha saputo sfruttare in questi ultimi tre anni il rialzo dei tassi entrando in conti di deposito minimamente remunerati, il grosso di questa cifra è rimasta a disposizione soprattutto delle banche, che hanno ringraziato felici perché hanno così avuto accesso a una forma di finanziamento a basso costo. Ma per gli italiani è stato un parcheggio costoso, il cui valore è stato eroso dall’inflazione.

Le obbligazioni, perlopiù titoli di Stato italiani, hanno rappresentato il 7,55% del totale a 424 miliardi. C’è però da dire che non tutti hanno comprato quei titoli a tassi elevati emessi dal 2022 in poi, molti hanno infatti in portafoglio titoli a basso tasso d’interesse acquistati negli anni precedenti. Queste persone, adesso, si ritrovano in mano titoli svalutati e se avessero bisogno di venderli ci perderebbero, mentre per ottenere una sia pur bassissima remunerazione dovrebbero tenerseli fino a scadenza. Non è detto che tutti siano stati perfettamente consci che anche l’investimento in Btp non è mai esente da ribassi dei prezzi.

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Le famiglie italiane, inoltre, detengono 718 miliardi in fondi d’investimento (il 12,8% del totale), che hanno presumibilmente acquistato attraverso le banche. Le azioni costituiscono ben il 28,1% del totale delle attività finanziarie, arrivando a 1.584 miliardi. Di queste, la quasi totalità riguarda partecipazioni in imprese italiane (spesso quelle di famiglia) e di azioni.

Chiude la serie la voce “assicurazioni, fondi pensione e Tfr”, strumenti tipici di un risparmio a lungo termine per un totale di 1.113 miliardi (19,8 per cento), una bella fetta del risparmio totale. 

Del totale di 5.628 miliardi in mano alle famiglie italiane, la Banca d’Italia calcola che il “risparmio gestito” vero e proprio sia pari a 1.632 miliardi, costituto da quote di fondi comuni, assicurazioni sulla vita, gestioni patrimoniali, fondi pensione e pensioni integrative. In altre parole, questa è la quota di risparmio che gli italiani affidano a gestori professionali. Notiamo che si tratta del 29,3 per cento, poco meno di un terzo del totale delle loro attività finanziarie. Si tratta comunque di una bella cifra, cresciuta nel corso del tempo parallelamente a tutta la (giusta) propaganda che viene svolta contro il fai-da-te che in finanza, così come in tante altre cose, è fonte di pericoli. Ma come vengono investiti questi soldi? A quali costi? E con quali risultati?

Fondi d’investimento ed Etf

Prendiamo ad esempio i fondi d’investimento. Nell’ultimo Rapporto Esma su rendimenti e costi di questi strumenti, i fondi italiani si distinguono negativamente. Quelli azionari sono infatti al primo posto per costi, un 2,07 per cento medio annuo negli ultimi dieci, contro l’1,55 per cento della media Ue, l’1,49 della Germania, l’1,75 della Francia e l’1,68 della Spagna. 

Sui fondi obbligazionari, i più gettonati, la media italiana dei costi è stata dell’1,19%, contro la media Ue dell’1,01 per cento, lo 0,81% della Germania, lo 0,71% della Francia e lo 0,61 della Spagna. Se guardiano le cose dal lato dei rendimenti netti per i clienti, si scopre che quelli italiani hanno avuto lo 0,17 per cento medio annuo contro la media Ue dello 0,89%lo 0,37 dei tedeschi e lo 0,44 dei francesi. Da notare che l’asset allocation degli italiani è tra le più prudenti in Europa, con poco azionario (che nel lungo periodo è finora stato vincente) e molto obbligazionario in pancia: se quest’ultimo rende anche poco, è un guaio. 

Si dirà che la maggior parte dei fondi venduti in Italia sono di origine lussemburghese (soprattutto) o irlandese, sebbene le case madri siano perlopiù italiane. Ma anche i fondi lussemburghesi sono tra i più cari. Negli ultimi dieci anni, quelli azionari hanno avuto un Ter (total expense ratio, il costo onnicomprensivo) dell’1,76 per cento medio annuo, al terzo posto dopo la stessa Italia e la Spagna. Anche sull’obbligazionario il Lussemburgo ha costi simili a quelli italiani: 1,14 per cento l’1,19.
Da notare anche che non sono soltanto gli operatori italiani a riuscire a farsi pagare tanto, ma anche quelli stranieri, che considerano probabilmente l’Italia una terra di Bengodi. Basta pensare che la francese Amundi fa circa un quinto dei suoi profitti nel Bel Paese.

Gli Etf

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Da notare che in Italia sono poco diffusi tra i risparmiatori comuni strumenti “passivi” ed economici come gli Etf (Exchange traded fund), che seguono pedissequamente un indice e all’estero sostituiscono in parte i più costosi fondi d’investimento. La ragione per cui questo avviene è che gli Etf non possono riconoscere alcuna commissione alle reti di vendita (sportelli bancari e consulenti finanziari), laddove invece i fondi “retrocedono” una fee al venditore che il risparmiatore neppure sa che esiste. Soltanto i consulenti “fee only”, che si fanno pagare soltanto per la consulenza (e non per la vendita di fondi) e possono quindi consigliare di acquistare Etf al posto dei più costosi fondi. Ma in Italia, dove sono prevalenti le reti captive di origine bancaria, sono pochi e non si curano dei piccoli risparmiatori.

Le polizze vita

C’è molto grasso per i produttori e gli intermediari anche sulla vendita e la gestione delle polizze vita. Queste si distinguono in diversi rami ma sono due quelli che contano per il singolo: il Ramo I (rivalutabili) e il Ramo III (agganciate al rendimento di fondi sottostanti). Le prime, da sempre considerate uno strumento d’investimento a lungo termine, sono ancora quelle che hanno un patrimonio maggiore, circa 559 miliardi a fine 2024 (dati Ania Trends), le seconde valgono poco meno della metà (256 miliardi). Il Ramo I ha il pregio di assicurare al sottoscrittore un rendimento anno per anno acquisito per sempre: se un anno mette a segno un più 3%, ad esempio, l’anno successivo si partirà da questo 3% in più a cui si aggiungerà il nuovo rendimento e così via nel corso del tempo, cinque, dieci o vent’anni per la durata della polizza. Questo dovrebbe tranquillizzare i risparmiatori più prudenti perché non sono soggetti agli alti e bassi del mercato. Il punto, però, è un altro: il rendimento “garantito” è da molti anni lo zero assoluto. Inoltre, per assicurare comunque dei risultati, le polizze fanno il pieno di titoli di Stato, soprattutto italiani (comprare troppe azioni le esporrebbe sobbalzi dei mercati e questo non è consigliabile visto che il rendimento del passato è acquisito per sempre). La conclusione è logica: il Btp e gli altri titoli pubblici acquistati nel corso del tempo costituiscono nella quasi totalità il rendimento lordo, a cui vengono sottratti i vari costi: di caricamento (una specie di costo d’ingresso iniziale), di gestione delle masse, mentre sul rendimento della gestione le compagnie si prendono un’ulteriore fetta. Nel 2022, ha scritto l’Ivass, l’organo di controllo, le imprese hanno trattenuto un 1,1% medio. Nella sostanza, le polizze rivalutabili danno un rendimento basso, più basso del complesso dei titoli di Stato che hanno in pancia. Insomma tanto rumore per poco… così qualcuno dice sottovoce che si otterrebbe lo stesso risultato se si comprassero e detenessero titoli di Stato per un lungo periodo senza mai venderli prima, ma certo con costi decisamente minori. Anche se questo presupporrebbe una capacità di gestione che certo soltanto pochi hanno.

Altra storia è quella delle polizze di Ramo III, che hanno dei fondi d’investimento come sottostante e quindi sono soggette agli alti e bassi dei mercati. Tuttavia le polizze sono molto più care dei fondi sottostanti. Intanto perché contengono la copertura che in caso di premorienza pagheranno agli eredi l’intero capitale iniziale. Basta questo a convincere molti a comprarle al posto dei fondi? Troppo poco: dopo 5-10 anni il vostro capitale dovrebbe essere piuttosto cresciuto, a che serve avere la garanzia del capitale iniziale in caso infausto? Due ricercatori della Banca d’Italia hanno recentemente dimostrato che se si prende una polizza di Ramo III e la si confronta con gli stessi identici fondi d’investimento sottostanti, il costo della prima è nettamente superiore. I ricercatori lasciano intendere, senza dirlo apertamente, che le differenze di prezzo e di rendimento potrebbero non essere giustificate dai benefici dell’“involucro” polizza.

L’unica ragione plausibile è quella di chi vuol lasciare dei soldi al di fuori dell’asse ereditario, visto che il capitale trasferito in questo modo non è soggetto all’imposta di successione. Ma non lo sono neppure i titoli di Stato. Ma poi tutto questo interessa davvero a tutti quelli che comprano questi prodotti? O soltanto ad alcuni con disponibilità rilevanti? 

I Fondi pensione e i Pip

Dalle polizze vita ai Fondi pensione il passo è breve. La previdenza integrativa è stata regolamentata negli anni 90 e oggi sono presenti fondi pensione “chiusi”, destinati alle varie categorie di lavoratori dipendenti, fondi aperti e Pip (questi ultimi strumenti venduti solo dalle assicurazioni), destinati sia ai lavoratori autonomi che ai dipendenti. Bene, finalmente lo strumento giusto per un risparmio a lungo termine. Però i costi dei vari strumenti non sono gli stessi: in generale i fondi di categoria hanno costi più bassi: secondo una proiezione della Covip, l’ente di vigilanza, si tratta di uno 0,60 per cento medio a 35 anni per il comparto “garantito”, di uno 0,25 per cento per gli obbligazionari, di uno 0,26 per i bilanciati e di uno 0,27 per gli azionari. 

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Se prendiamo i costi medi degli altri due strumenti, abbiamo che Fondi aperti e Pip fanno pagare rispettivamente: l’1,08 per cento e l’1,47 medio annuo sulle forme garantite, lo 0,95 e l’1,58 sugli obbligazionari, l’1,32 e l’1,87 sui bilanciati, l’1,59 e il 2,28 sugli azionari. La differenza con i fondi chiusi è abissale, ma certo, se si tratta di lavoratori autonomi c’è poco da fare, devono per forza optare per una di queste due forme. La cosa strana è che, nonostante i vari avvertimenti annuali della Covip di far attenzione ai costi, ci sono tantissimi dipendenti che puntano su Pip e Fondi aperti: ben 2,5 milioni i primi e 1,2 milioni i secondi, contro i 4 di quelli che restano nei fondi chiusi.

Se passiamo ai rendimenti netti, vediamo che i negoziali sono più bravi degli altri nelle forme garantite e obbligazionarie sia pure che miste, con rendimenti medi annui a dieci anni (2014-2024) rispettivamente dello 0,7 per cento, dello 0,4 e del 2,4. Sui bilanciati fanno meglio dei Pip (2,5 contro 1,7) e poco peggio degli aperti (2,7). Soltanto gli azionari puri aperti e Pip, con il 4,7 per entrambi, fanno leggermente meglio dei chiusi (4,4).

Alla fine dei conti, anche nella “pensione di scorta” il grasso che va a remunerare banche e assicurazioni è piuttosto alto. Questo è il destino del risparmio degli italiani: lasciare grosse fette di rendimento a chi dovrebbe aiutarli a ottenere di più.

Ma non basta. Persino negli strumenti a lungo termine, i Fondi pensione e assimilati, gli italiani sono troppo prudenti e investono poco in azioni. Né le banche né i consulenti finanziari né i gestori dei Fondi pensione riescono, o vogliono, convincerli a spostare più soldi nell’azionario che dà i suoi frutti soltanto nel lungo periodo. Così gli italiani, rispetto ad altre popolazioni europee, ogni anno che passa perdono soldi per rendimenti più bassi. I profili azionari puri rappresentano soltanto il 4 per cento nei Fondi negoziali, il 10 nel Pip e il 24,2 negli aperti (una quota già elevata). Per fortuna nei chiusi (54 per cento del totale) e negli aperti (51,1) c’è dominanza almeno dei bilanciati, che hanno un po’ di azioni insieme alle obbligazioni. Non così avviene nei Pip, dove ben il 64,9 per cento è iscritto ai garantiti, che notoriamente, nel lungo termine, rendono pochissimo.



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