Le piaghe e la panacea


1. Premessa

Questo non è un commento tecnico.

Ha ambizioni molto più modeste di un’analisi scientifica della proposta di riforma costituzionale e dei suoi molti profili di incompatibilità con gli assetti disegnati dai costituenti. Vuol solo tentare un marginale disvelamento, che si spera renda comprensibile, anche ai non addetti ai lavori, quale sia davvero la posta in gioco.

Si vuol provare a diradare il confronto dalle molte cortine fumogene da cui è stato offuscato, nella speranza di aiutare il formarsi di un’opinione non condizionata né dalla martellante campagna mediatica che la sospinge né dalle personali convinzioni politiche. Anche in vista del possibile esercizio del diritto/dovere di concorrere, con il proprio voto, alla decisione se incidere o meno sulla fondamentale Carta che regge la nostra convivenza.

Si è dunque ritenuto di tralasciare le, pur numerose e destabilizzanti, modifiche prospettate in tema di numero, struttura, competenze e composizione dei futuri organi di autogoverno della magistratura[1] e di circoscrivere l’analisi a quello che è il vero cuore della riforma, come tale del resto continuamente rivendicato dai suoi proponenti e sostenitori: la cosiddetta separazione delle carriere fra Giudici e Pubblici Ministeri.

 

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2. I drammatici problemi della Giustizia Italiana

Sono molti, drammatici e incancreniti da decenni i problemi che affliggono l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. Ben noti, peraltro e mai seriamente incisi dal gran numero di riforme e controriforme succedutesi negli anni, che, lungi dal risolverli, hanno spesso contribuito al loro aggravamento. Non foss’altro che per i diversi, contrastanti ed a volte imperscrutabili obiettivi perseguiti dal legislatore. Identica considerazione che può farsi per molti interventi settoriali del Ministro della Giustizia. 

Basti pensare allo spostamento presso le Corti d’Appello delle competenze in tema di convalide dei trattenimenti di richiedenti asilo[2], dopo che -per un decennio ed in esecuzione della precedente riforma- si erano investite ingenti risorse per organizzare e formare le neoistituite Sezioni Immigrazione e Protezione Internazionale presso i Tribunali.

O all’App ministeriale che avrebbe dovuto estendere anche al processo penale la possibilità di trattazione telematica già sperimentata da diversi anni nel civile, che è stata concepita e realizzata con esisti disastrosi. Tali da portare, ad esempio, al dimezzamento delle richieste di archiviazione per l’accertata incompatibilità del nuovo software con le norme processuali[3].

Perché, a dispetto della schizofrenia legislativa e della leggiadra svagatezza del Ministro, i problemi della Giustizia Italiana sono quelli che indicano le nude cifre. 

Organico dei magistrati con una scopertura del 16,7%; organico del personale amministrativo con una scopertura del 27%; organico della Polizia Giudiziaria con una scopertura di 22 mila unità; 25 mila addetti all’Ufficio per il Processo, assunti, con i fondi PNRR con contratto a termine che andrà a scadenza a fine del 2026 e la cui stabilizzazione resta ancora incerta. Con l’effetto che più di un terzo di loro ha già rassegnato le dimissioni avendo, nel frattempo, vinto altri concorsi pubblici per un rapporto a tempo indeterminato; carceri con un indice di sovraffollamento 132,6%, nei quali 83 detenuti si sono uccisi nel solo 2024 e già 12 nel 2025, con alle porte una prevedibile nuova condanna della Comunità Europea.

Una situazione che definire drammatica è un pudico eufemismo e la cui soluzione imporrebbe di metter mano ai cordoni della borsa. Mentre, al contrario, tutte le maggioranze politiche continuano a sfornare riforme “a costo zero”. Appongono implacabilmente la famosa clausola di “invarianza finanziaria”, rispetto alla quale l’attuale Governo è riuscito a fare persino di peggio, tagliando i fondi per la Giustizia di ben mezzo miliardo di euro.

Verrebbe da dire, parafrasando il noto detto, che per celebrare queste nozze, nemmeno fichi secchi, ma solo croste di pane duro.

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Infine, per non farci mancare nulla ed in ossequio al populismo penale, vera cifra delle politiche di destra in ogni paese del globo (terracqueo), ogni mese si sfornano nuove norme incriminatrici, tutte, implacabilmente, dirette verso le aree della marginalità e del disagio sociale oltre che, ça va sans dire, del dissenso. 

Una febbrile coazione a punire che spazia dalla disobbedienza non violenta dei detenuti alle manifestazioni di lavoratori o studenti che creino problemi per la circolazione stradale. Nuovi reati, nuova repressione e, quindi, nuovi processi, che andranno ad ingolfare ulteriormente una macchina già in esausta.

 

3. La panacea

Per fortuna è oramai in dirittura d’arrivo la panacea miracolosa che risolverà tutti i problemi della Giustizia Italiana. Già inutilmente perseguita da Licio Gelli e Silvio Berlusconi ed agognata da schiere di sedicenti garantisti: la riforma costituzionale della separazione delle carriere. 

«La riforma finale», l’ha definita il Ministro Nordio accostandola, non si sa quanto involontariamente, alla creatura del prof. Oppenheimer.  

Singolarmente, però, per i sostenitori di questa riforma i mali della Giustizia non sono affatto quelli appena descritti, ben diversa essendo la loro diagnosi.

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Le piaghe che ci affliggono si riducono a due soltanto: l’incompiuta attuazione, nel nostro ordinamento, del processo penale accusatorio e il dilagare degli “errori giudiziari”.

Con questa la diagnosi occorre dunque misurarsi, ma non senza una preliminare osservazione: stiamo parlando di problemi o, per dirla con i riformatori, di drammi che riguardano esclusivamente il processo penale. 

Dunque, si rassegnino i lavoratori che si rivolgono ai giudici per l’ingiusto licenziamento patito (e, per converso, i datori di lavoro che chiedono in appello la riforma di una ingiusta sentenza che li ha condannati a reintegrare un lavoratore infedele); i proprietari di un immobile che attendono da anni lo sfratto di un inquilino moroso; i creditori che tentano di recuperare, con un pignoramento[4], le somme mai corrisposte dall’acquirente o committente; la coniuge o il coniuge che chiede l’affidamento esclusivo o congiunto dei minori e via enumerando.

Il territorio, ben più vasto, della Giustizia civile, quella che dà il vero, quotidiano, senso del livello di civiltà di un paese da questa riforma non sarà neppure sfiorato. I cittadini depongano ogni speranza al riguardo. 

Non di meno risolvere almeno i mali che affliggono la Giustizia penale sarebbe già qualcosa. Analizziamo, quindi, diagnosi e cura prospettate per sanare questo minore ramo della giurisdizione.

 

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4. La diagnosi – il modello accusatorio

Il primo male della Giustizia penale diagnosticato, come detto, concerne la grave lacuna da cui sarebbe afflitto, rispetto al modello accusatorio puro cui si ispira, il nuovo processo introdotto in Italia nel 1988. 

Il processo accusatorio, si dice, per poter davvero funzionare senza ledere i diritti fondamentali degli accusati imporrebbe che il pubblico ministero non appartenesse allo stesso ordine di funzionari cui appartengono i giudici. Le persone fisiche che rivestono i due ruoli, insomma, non dovrebbero essere colleghi, non dovrebbero “darsi del tu” perché questo lederebbe in maniera irreparabile l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici rispetto alle parti. Giudici che sarebbero portati, in virtù di questo rapporto di colleganza, a propendere inevitabilmente verso le tesi della pubblica accusa anziché verso quelle della difesa. 

Ma quali sono i fatti che supportano tale tesi? 

Le diagnosi mediche sono sempre basate su fatti: anamnesi del paziente, esame obiettivo dello stesso, auscultazione toracica, esami strumentali, ecc.   

La diagnosi dei riformatori su quali fatti esattamente si fonda?

In realtà, non esistono dati statistici o numerici che la convalidino, ché anzi il solo dato disponibile, quello di una percentuale di assoluzioni costantemente superiore al 40%, parrebbe indicare l’esatto contrario: se fossi ancora un PM e mi attendessi che i colleghi giudici, in virtù di tale colleganza, avessero un occhio di riguardo per le mie tesi accusatorie, di fronte a questi numeri avrei loro tolto il saluto già da tempo.

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Singolare la replica delle Camere Penali (organismo le cui proposte legislative di riforma sono state in larga parte recepite dal Governo)[5] a questo incontestabile dato: non sarebbe da prendere in considerazione perché comprende anche le assoluzioni per prescrizione ed altre cause di improcedibilità.

Processualmente si chiama inversione dell’onere della prova. Sono gli aspiranti riformatori a dover “provare” la necessità della riforma. Se un dato smentisce questa necessità sono loro a doverlo ridimensionare magari tentandone un’analisi più approfondita, disaggregandolo ad esempio. Sono loro a dover dimostrare che sia un dato irrilevante. 

Allo stato, dopo anni di dibattito, nessuno è mai riuscito a farlo e quindi il dato rimane nella sua nettezza: quattro volte su dieci i PM chiedono la condanna ed i giudici assolvono. Alla faccia dell’occhio di riguardo…  

Si ricorre allora ad argomenti simil-esoterici, sostenendo che così volevano il padre morale di quel codice, l’ex partigiano, ex costituente ed ex Ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli ed i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

A questo livello di argomentazione, però, non è il caso scendere.

I morti si lasciano in pace, tanto più i morti tragicamente e da eroi laici, come i due citati magistrati e chi ne disturba il sonno dimostra poco rispetto, oltre a pochezza di argomenti.

Si dice allora che la separazione esiste in tutti i paesi occidentali o, perlomeno, in quelli più evoluti o, comunque, in quelli che adottano un modello processuale accusatorio.

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Quel che si omette di dire è che, nei paesi in cui ciò avviene, pochi o molti che siano, i pubblici ministeri sono sempre soggetti al potere politico. Sempre. Di ciò si dirà meglio in seguito

Anche la tesi secondo cui la separazione delle carriere sarebbe imposta dalla necessità di mondare il nostro processo accusatorio dalle troppe impurità che lo allontanano dall’originario modello anglosassone si rivela argomento molto fragile, oltre che a doppio taglio. 

Ha ben rilevato un grande pubblico ministero che il processo accusatorio di stampo anglosassone richiederebbe anche «l’unico giudice terzo, cioè la giuria …la discrezionale discovery del materiale investigativo», cioè a dire che il PM possa discrezionalmente decidere quali prove mostrare alla difesa e quali no e «non tollera lo strumento inquisitorio del controllo del giudice attraverso la motivazione della sentenza di merito». 

Per cui niente più sentenze motivate e tanto meno ordinanze di misura cautelare fiume dei GIP: «nel più grande segreto il giudice mette un timbro alle richieste del PM» e si finisce in galera. Se si vuole il pacco completo, la purezza accusatoria anglosassone, sarebbero indispensabili, alla faccia del preteso garantismo, anche queste piccole modifiche ordinamentali. Piace l’articolo? Si prenda l’intero pacco.

La verità è che non esistono modelli puri o impuri di ordinamento della magistratura e di processo penale. Nel nostro paese il primo è stato disegnato dalla saggezza dei padri costituenti, fra i quali vi erano giuristi di valore ancora oggi insuperato, che avevano conosciuto la ferocia della dittatura ed avevano ben chiari gli snodi istituzionali su cui agire per scongiurare i rischi di un suo ritorno[6]

Poiché è con la portata di quel disegno istituzionale che ci si vuol misurare, occorrerebbe sapersi elevare a quell’altezza. Ma andiamo avanti

 

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5. La diagnosi – gli errori giudiziari. Parte prima

Veniamo alla piaga degli errori giudiziari. L’argomento che forse con più foga e da un trentennio, con metodo goebbelssiano[7], è ribadito da politici e media per sostenere l’ineludibilità della separazione. Argomento che è sempre sostenuto da un unico dato e da mere suggestioni.

Il dato, sempre variamente ribadito dai sostenitori di tale tesi, è quello delle trentamila persone che sarebbero state indennizzate per ingiusta detenzione negli ultimi trenta anni nel nostro paese. La fonte di tale dato non è mai citata, ma prendiamolo per buona.

Trentamila persone che sarebbero state ingiustamente detenute è un dato che suscita effettivamente una grande impressione. 

Conviene partire dalle norme.

L’art.314 del codice di procedura penale, sancisce il diritto all’equa riparazione per la custodia cautelare subita in favore di chiunque sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (1° comma: c.d. ingiustizia sostanziale), nonché ogni qual volta la custodia cautelare sia stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. (2° comma: c.d. ingiustizia formale) ovverosia in assenza di gravi indizi o di uno dei pericoli previsti da questi due articoli.

Si tratta, come specificato persino sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, deputato al pagamento di tali indennizzi, di un «indennizzo da atto lecito»[8], definizione testualmente ripetuta anche nelle relazioni annuali del Ministro della Giustizia di cui si dirà più avanti. E’ bene ribadirlo in questi tempi in cui i magistrati sono descritti come una banda di forsennati torturatori cui è garantita totale impunità. 

Definizione che discende da un’ovvia e rimossa ragione, che si va ad esporre confidando nella condiscendenza postuma del buon Lapalisse: ogni processo penale non può che concludersi con una condanna o con un’assoluzione. E poiché nel nostro processo penale (come in quello di ogni altro paese del mondo) è previsto che, per i reati più gravi ed in presenza di gravi contesti indiziari e di pericolo, l’indagato o imputato possa essere sottoposto a misure di cautela personali anche prima della sua conclusione, inevitabilmente avverrà che il verdetto finale possa smentire il quadro probatorio che aveva portato alla loro applicazione, mandando l’accusato pienamente assolto. 

Siamo, insomma, nella piena fisiologia del processo penale e ci sono solo due modi per evitare future riparazioni per ingiusta detenzione: a) togliere tutte le misure cautelari personali dal codice o, per dirla altrimenti, stabilire che si possa andare in carcere o agli arresti domiciliari solo dopo una sentenza di condanna passata in giudicato; b) fare in modo che chiunque venga sottoposto ad una misura cautelare personale sia poi sempre condannato. 

Ovvero, optare per il caos nella prima ipotesi (si lascia all’immaginazione del lettore la visione di un futuro in cui anche davanti ai più efferati delitti e granitici quadri probatori, si dovessero aspettare anni prima di mettere le manette ai polsi dei loro autori) o per un bel regime dittatoriale, nella seconda, essendo i soli in cui una volta entrati in galera è impossibile uscirne da innocenti.

L’altra disposizione del codice che prevede la riparazione per errore giudiziario è l’art.643 c.p.p., che la riserva a chi sia stato «prosciolto in sede di revisione» ovvero all’esito di un giudizio di revisione. Evitando appesantimenti espositivi che, come chiarito in premessa, eccedono le finalità di questo scritto, ci si può limitare a dire che il giudizio di revisione è quello che può aprirsi dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna nel caso che emergano nuove prove idonee a dimostrare l’innocenza del condannato. E’, ad esempio, il noto e molto citato caso del pastore sardo Beniamino Zuccheddu. 

Sono casi in cui, per definizione, non si dovrebbe parlare di “errori giudiziari”, non potendovi essere stato un errore del giudice se, nel momento in cui ha deciso, ancora non disponeva delle prove dell’innocenza dell’imputato. Nondimeno, con evidente deragliamento lessicale, il legislatore nell’art.643 -e solo nell’art.643- parla di «errori giudiziari». 

Comunque sia, la definizione è oramai genericamente ed impropriamente usata in senso onnicomprensivo per cui non rimane che prenderne atto.

Avendo, però, cura di non dimenticare mai che nelle ipotesi di riparazione riconosciuta in esito ad un processo di revisione non si è mai di fronte ad un errore dei giudici. 

Come attestano le relazioni annuali del Ministro della Giustizia alle Camere in materia di misure cautelari personali[9], che dal giugno del 2017 devono indicare anche «i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, pronunciate nell’anno precedente» e nelle quali è sempre contenuta la specificazione che «occorre distinguere i casi di riparazione per ingiusta detenzione da quelli di riparazione derivante da errore giudiziario (art. 643 c.p.p.), che non costituiscono oggetto specifico della presente Relazione»[10].  

 

6. La diagnosi – gli errori giudiziari. Parte seconda

A. Tutto quel che si è detto al paragrafo precedente non vale tuttavia ad escludere che un dato abnorme di indennizzi per ingiusta detenzione possa giustificare seri interrogativi sul corretto funzionamento del sistema. Un dato, ad esempio, come quello dei 30 mila indennizzati per errori giudiziari di cui sempre si parla. 

E’ vero che neppure si dice se in essi siano comprese le riparazioni dovute a revisione del processo, che costituiscono mediamente un terzo delle riparazioni e nelle quali, come si è detto, per definizione non vi è stato alcun errore, ma facciamo conto che sia un dato al netto delle revisioni. E’ una cifra che fa impressione, una cifra che colpisce ed indigna persino, ma è davvero un dato abnorme?

Alla domanda dev’essere data una risposta recisamente negativa.

Risposta negativa cui si perviene inevitabilmente se si opera una proporzione fra il citato dato dei trentamila indennizzi in trent’anni e quello dei nuovi procedimenti penali iscritti ogni anno presso le procure della Repubblica ordinaria e dei minori.

Ora, sui dati delle nuove iscrizioni penali annuali c’è una grande confusione, ma alcuni numeri, muniti di sicura attendibilità possono essere agevolmente reperiti smanettando in internet. Ad es., sul sito del Ministero della Giustizia[11] si possono reperire i seguenti dati relativi agli anni 2010, 2011 e 2012:

– 2010: 1.692.276 nuove iscrizioni contro noti presso le procure della Repubblica ordinarie e dei minori;

– 2011: 1.583.161 nuove iscrizioni contro noti presso le procure della Repubblica ordinarie e dei minori;

– 2012: 1.623.771 nuove iscrizioni contro noti presso le procure della Repubblica ordinarie e dei minori.

Sul sito dell’ISTAT sono invece rinvenibili i dati relativi al solo 2014[12]: 1.596.140 nuove iscrizioni contro noti presso le procure della Repubblica ordinarie e dei minori

Così, solo in questo quadriennio il numero totale dei procedimenti penali iscritti risulta pari a 6.495.348.

Se calcoliamo l’incidenza percentuale dei 30 mila indennizzati di cui sopra solo sui nuovi procedimenti iscritti nei quattro anni sopra indicati, siamo di poco sotto dello 0,5%. 

Ma, come detto, le 30 mila riparazioni sarebbero relative agli ultimi 30 anni.

Se, dunque, qualche statistico o matematico avesse l’intenzione, il tempo e la possibilità di reperire i dati dei nuovi procedimenti penali iscritti in questo paese negli ultimi trent’anni, la percentuale degli indennizzati per ingiusta detenzione risulterebbe drasticamente prossima allo zero. 

Ipotizziamo, ad esempio, 1.500.000 nuove iscrizioni all’anno (una media al ribasso rispetto al quadriennio indicato), in 30 anni sarebbero 45.000.000 di nuovi procedimenti penali avviati. Trentamila indennizzati, sarebbero allora pari ad appena lo 0,065%.

Uno 0,065% di errori giudiziari giustificherebbe un tale stravolgimento della Costituzione?

Una sola precisazione. 

Si potrebbe ribattere che la proporzione non dovrebbe essere fatta rispetto al numero totale di procedimenti iscritti negli ultimi 30 anni, ma rispetto al numero di quelli in cui sono state disposte misure cautelare. Bene, pare un’obiezione sensata. Chi scrive, però, non è riuscito, in alcun modo, a reperire tale dato, né era suo onere farlo.

Come già detto, non si può invertire l’onere della prova: è onere di chi vuole riformare -e riformare così radicalmente- la Costituzione della Repubblica indicare i dati su cui si fonderebbe questa necessità. 

Laddove qualcuno mai fornirà dati di maggiore dettaglio, saremo ben lieti di confrontarci su di essi, allo stato nessuno ancora l’ha fatto. 

B. Onestà intellettuale, però, impone di tentare un minimo di approfondimento di un aspetto che risulta impercepibile nell’abborracciata girandola di dati numerici esibita dai sostenitori della salvifica riforma e che, invece, meriterebbe una seria e specifica riflessione.

Come detto nel precedente paragrafo, l’art.314 c.p.p. prevede due diverse ipotesi di riparazione per ingiusta detenzione e la seconda, quella di cui comma 2° della norma e sopra indicata come «ingiustizia formale», merita d’essere nettamente distinta dalla prima, perché in questi casi no, non siamo nella fisiologia del processo. 

In questi casi, quelli in cui di solito si dice che si è formato il «giudicato cautelare» negativo, si è accertato che non sussistevano, ab origine, i presupposti per l’assoggettamento a misura cautelare. Si è accertato -con pronuncia dell’organo superiore, a volte il Tribunale del Riesame, se la sua pronuncia non è stata impugnata in Cassazione, più volte la stessa Cassazione in sede di ultima istanza- che mancavano i gravi indizi di reato o il pericolo di fuga o il pericolo di reiterazione che avrebbero potuto giustificare l’applicazione della misura. 

In questi casi, in altri termini, l’indagato non doveva essere privato del diritto alla libertà personale. Diritto appartenente al ristretto novero di quelli fondamentali sanciti dalle costituzioni, sacrificabile, prima di una sentenza passata in giudicato, solo di fronte ad esigenze di tutela davvero eccezionali e di fronte a più che solidi quadri probatori. Tutte le volte che ciò non avviene la credibilità dell’intero ordinamento vacilla. 

E’ dunque doveroso, in primo luogo, indagare sulle dimensioni del fenomeno e, in secondo luogo, consentire, anzi promuovere un confronto pubblico, civile, ma privo di condizionamenti, oltre che tempestivo ogni qual volta si abbia sentore che quel diritto sia stato ingiustamente leso.

Sul secondo imperativo si dirà qualcosa più avanti, sul primo i sostenitori della “riforma finale” continuano a diffondere dati generalissimi e del tutto neutri, ma qualche dato di dettaglio si può trarre dalle citate relazioni annuali del Ministro e lo si offre loro nella speranza di aiutare conclusioni più meditate. 

Questi i numeri relativi alle ordinanze di accoglimento delle domande di riparazione, per ingiustizia formale della misura cautelare, emesse a decorrere dal 2018: 

2018, 123 ordinanze; 

2019; 115 ordinanze;

2020, 80 ordinanze;

2021, 198 ordinanze;

2022, 112 ordinanze;

2023, 130 ordinanze;

2024, 114 ordinanze.

E’ un dato difficile dal valutare. Se rapportato a quello, seppure indicativo, del milione e mezzo di nuovi procedimenti penali iscritti ogni anno, appare davvero privo di rilevanza sotto il profilo quantitativo, ma in realtà la proporzione non avrebbe senso alcuno posto che, come detto, questi sono i numeri delle ordinanze di riparazione emesse in corso d’anno, ma non ci dicono quando l’ingiusta misura cautelare oggetto di riparazione sia stata emessa. Potrebbe essere stato l’anno prima, ma anche due o tre o più anni prima. 

Un dato, dunque, del tutto inservibile ai fini di un’analisi quantitativa.

Se ne dovrebbe proporre una qualitativa, ma i sostenitori della riforma ben se ne guardano e non a caso. 

 

7. La diagnosi – gli errori giudiziari. Parte terza

Come si è detto sopra, all’unico dato appena esaminato i fautori della riforma affiancano sempre una serie di suggestioni.

Esempio di scuola in tal senso, vera epitome delle reali ragioni dei riformatori, è l’articolo di Ermes Antonucci comparso sul Foglio del 13 gennaio scorso, nel quale l’autore redige un vero e proprio consuntivo delle nefandezze dei giudici emerse, mese per mese, nel corso del 2024.

Antonucci è noto per l’impegno giornalistico e narrativo che dedica alla battaglia civile contro tali nefandezze[13] e nel citato articolo -al netto del caso di Beniamino Zuccheddu di cui si è già detto- ha citato, è da dubitare casualmente, solo ed esclusivamente vicende giudiziarie che hanno interessato personaggi appartenenti alle élites politico-economiche del paese: l’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo; il presidente dell’Autorità Portuale Adriatico Meridionale, Ugo Patroni Griffi; il «genetista di fama internazionale» Giuseppe Novelli; il deputato del PD, Pietro De Luca; Tiziano Renzi (padre dell’ex premier Matteo) e l’ex ministro Luca Lotti; l’ex sindaco di Torino Piero Fassino; l’ex Presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella; l’ex Ministro della Salute Roberto Speranza; il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella; l’ex Commissario alla sanità del Molise Angelo Giustini; Andrea Conticini, cognato di Matteo Renzi; l’ex Presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino e l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino; l’ex Presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini; l’ex assessore al welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera e l’ex dirigente della stessa Regione, Luigi Cajazzo; l’attore Alberto Gimignani; il sindaco di Scafati Pasquale Aliberti e quello di Rosarno, Giuseppe Idà; l’ex premier Matteo Renzi; naturalmente il Ministro Matteo Salvini; l’ex senatore del PD Stefano Esposito e pochi altri sempre appartenenti ad analoghi milieux.  

Nessun insegnante precario, contadino, operaio, manovale, pony express o commesso, dunque. Categorie evidentemente baciate dalla sorte.

Ma cosa è capitato ai componenti dell’illustre schiera sopra ricordati nel corso del passato anno? A quali tormenti giudiziari costoro sono «sopravvissuti» (così testualmente, in epigrafe, l’articolo)?

Alcuni sono semplicemente sopravvissuti ad un processo penale, altri ad ancor meno, ad una mera indagine. Al netto dell’imponente aggettivazione spesa, ciò che si narra è solo che tutte queste persone, nel corso dell’anno appena finito, sono state assolte o che nei loro confronti i temibili pubblici ministeri hanno chiesto ed ottenuto l’archiviazione.

Ma si è già detto – e ci scusiamo ancora con Lapalisse – i processi penali si concludono con una condanna o con un’assoluzione. E il fatto che in molti di questi casi si siano conclusi con assoluzioni ne dovrebbe far dedurre, se le parole ancora avessero un briciolo di senso, che l’appartenenza di PM e Giudici al medesimo Ordine non condizioni affatto i secondi.

Ancor di più nei casi rimanenti, in cui addirittura sono stati i PM che hanno, loro, chiesto ed ottenuto l’archiviazione. Che se ne dovrebbe concludere, che l’ingiustizia stia addirittura nell’avere iscritto i nomi di quelle importanti persone a registro notizie di reato?

La domanda è meno retorica di quel che sembra.   

 

8. La cura

Se la diagnosi è del tutto approssimativa, per non dire truffaldina, cosa si deve dire della cura?

In che modo il PM separato dai giudici eviterebbe le denunciate nefandezze?

Quanto appena detto sulle suggestioni ad ogni piè sospinto proposte dai riformatori costituisce già un indizio (si perdonerà il continuo ricorso a nozioni processuali, ma è di processo che parliamo) di una certa consistenza.

Perché ci si attende che il PM separato dai giudici cessi di importunare i nostri illustri concittadini addirittura iscrivendoli a registro di reato ogni qual volta una notizia di reato che rechi il loro nome giunga sulla sua scrivania? Di per sé, parrebbe un’aspettativa del tutto irrazionale. Quel PM sarebbe lo stesso PM di prima. Quei PM sarebbero gli stessi PM di prima. Approssimativi, inquisitori e persecutori delle persone per bene come prima, anzi forse anche più di prima, visto che a questo punto, come si suol dire, se la canterebbero e suonerebbero da soli: un loro CSM fatto solo di PM e non, come oggi, in maggioranza di giudici; una formazione professionale in cui PM insegnano ad altri PM come fare il PM e simili altre amenità.

Allora perché ci si attende quel risultato?

E’ a questo punto che occorre riprendere il ragionamento che si era lasciato in sospeso al paragrafo n.4: in tutti i paesi in cui il PM è separato dai giudici esso è, in varia misura e secondo varie modalità sottoposto al Governo. Anche in Spagna e Portogallo, paesi sovente dai riformatori portati ad esempio dell’inesistenza di rischi per la sua indipendenza.

In Spagna «Il Procuratore generale guida e rappresenta il pubblico ministero. È nominato e revocato dal Re su proposta del Governo” ed “i poteri dei superiori rispetto ai propri sottoposti sono amplissimi»[14]

In Portogallo -il cui ordinamento le Camere Penali continuano ad additare ad esempio richiamando, con lirico trasporto, «la Rivoluzione dei Garofani del 1974» – «ogni procuratore deve la propria obbedienza a colui che gli è funzionalmente superiore, secondo una struttura che si sviluppa a partire dai gradi inferiori verso quelli intermedi e poi superiori, questi ultimi dotati di poteri direttivi gerarchici, per culminare nel Procuratore generale». Che è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo e può anche non essere un magistrato[15].

Ovviamente un simile PM non turberebbe la tranquillità dei maggiorenti vicini al Governo di turno con offensive iscrizioni al registro notizie di reato o, ancor peggio, con intollerabili richieste di rinvio a giudizio, ma per l’appunto i governi turnano. Almeno per il momento.

Si consiglia, pertanto, ai cittadini ed anche ai politici favorevoli alla riforma un salutare esercizio. Immaginate un governo del colore politico a voi avverso. Immaginate il politico dell’altra sponda che più avete in odio come Presidente del Consiglio e quello che porreste al secondo gradino del podio come Ministro della Giustizia ed immaginate duemila pubblici ministeri direttamente o indirettamente a loro subordinati. Vi sentireste più tranquilli? Più liberi? Più sicuri?

Le riforme costituzionali sono per sempre e per tutti. Non per il momento e per i nostri amici. Quel che oggi ad alcuni potrebbe apparire un sogno, domani potrebbe trasformarsi nel peggiore dei loro incubi. 

Naturalmente sappiamo bene che l’attuale proposta di riforma non prevede questa soggezione, ma è lì che inevitabilmente si andrà a finire. Ce lo dicono i numerosi, gravi e concordanti indizi che si sono sopra esposti, ma già lo dicono alcune voci dal sen fuggite che annunciano il vero obiettivo finale della riforma finale.

Dello stesso Ministro Nordio, che nella relazione sull’amministrazione della Giustizia del 22 gennaio scorso ha testualmente affermato che i PM è un «superpoliziotto … con l’aggravante che godendo delle stesse garanzie del giudice egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità»[16]. E si dovrebbe davvero credere che questo superpoliziotto, dal potere immenso e privo di qualsiasi responsabilità lo si voglia costituire in casta separata senza alcun porre limite a questo potere?

Chi voglia crederci dovrebbe avere l’ingenuità di un santo. Chi dovesse crederci fra i magistrati anche l’identica disponibilità al martirio.

Se ancora tutto questo non dovesse bastare, ecco allora quanto dichiarato da una delle principali teste pensanti del centrodestra, nonché fine giurista. Il Senatore Marcello Pera, già Presidente del Senato ai tempi dei Governi di Silvio Berlusconi: «Si immagini la situazione. Il nuovo pm è autonomo e indipendente, ha l’obbligatorietà dell’azione penale, lavora in un ufficio ma non è inserito in alcuna gerarchia, perché è e si considera un potere diffuso che non risponde alle direttive di alcun capo. Separato dal giudice, con un Consiglio superiore suo proprio, non acquisisce un potere in più, ma mantiene gli stessi poteri con una forza moltiplicata e con effetti devastanti accresciuti. Può fare quello che crede, può perseguire chi crede, può inviare ‘atti dovuti’ ai ministri che crede. E se crede che sia compito suo perseguire la giustizia sociale, morale, politica, interpretando la legge scritta o applicando quella non scritta, è autorizzato a farlo e nessuno può fermarlo.

(…)  Sembra chiaro allora che la sola separazione non basta (…) che cosa in più occorre? Occorre rivedere la Costituzione proprio nei punti che ancora si ritengono intoccabili (…) L’obbligatorietà dell’azione penale è una norma manzoniana: nella pratica non può funzionare per ragioni di principio. La gerarchia dei pm è necessaria, perché in un ufficio non si sta come al bar, dove chiunque entri ordina ciò che gli piace e nessun altro avventore può dirgli alcunché sui suoi gusti. E l’autonomia e indipendenza del pm non può essere la stessa di quella del giudice, perché il pm deve sottostare a criteri di priorità, utilità, convenienza, che non può essere lui a darsi. Chi deve darglieli? (…) un procuratore generale della giustizia (…) l’organo di collegamento tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato; e come tale prende parte al Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponde di fronte alle Camere del buon andamento della Magistratura»[17].

Ecco la posta in gioco, in realtà di accecante chiarezza sin dall’inizio, ma occorreva mettersi a scavare un poco fra gli enormi cumuli di propaganda, suggestioni e vere e proprie bugie che l’avevano sepolta. 

 

9. La cappa

La più triste conseguenza di tutto questo è che, da più di trent’anni, i magistrati italiani sono costretti a vivere in una soffocante cappa di pensiero unico.

E’ una rappresentazione ridicola fino ed eccedente il grottesco quella di una magistratura monolitica, adusa a pensare e muoversi come falange col solo scopo di difendere il proprio interesse ed il proprio potere. 

E’ l’esatto contrario: scorre metaforicamente il sangue nel conflitto fra le diverse opinioni e istanze di cui i magistrati si fanno portatori. Tanto come singoli che nelle “formazioni sociali” in cui s’aggregano (una lettura della mailing list della ANM sarebbe in tale senso molto istruttiva). E sarebbe liberatorio poter finalmente dare aria a queste divergenze senza doversi ogni volta compattare contro l’ennesimo disegno di sovvertimento degli equilibri costituzionali finalizzato a minarne l’indipendenza. 

Ché di fronte a questi tentativi, specie in tempi in cui in mezza Europa ed oltre torsioni autoritarie, quando non direttamente dittatoriali, si affermano iniziando proprio dalla sottomissione dei giudici, è giocoforza chiudersi nella cittadella assediata.

E’ iniziato tutto con “Mani Pulite”, quando, passata l’enfasi giustizialista ed a tratti proprio forcaiola, le élites politico – economiche del Paese hanno iniziato a regolare i conti. In un crescendo rossiniano che pare non avere mai sosta né fine.

Dalla legge berlusconiana sulle rogatorie e successive accuse di eversione, formulate dal Parlamento ai giudici rei di interpretare la legge nel modo in cui si doveva a ben due riforme costituzionali fermate nelle urne, dagli attacchi feroci a magistrati con calzini di eccentrico colore a quelli di questi mesi, che non cercano neppure più pretesti ma mettono direttamente sul piatto il contrasto fra i loro provvedimenti e la linea politica dell’esecutivo, espressiva dello “spirito del popolo”, fino a quest’ultima controriforma che mina gli assetti della nostra Costituzione.

Eppure, ci sarebbe così tanto da dire sulla giurisdizione di questo paese. Su torsioni o vere e proprie distorsioni, purtroppo meno rare di quanto si vorrebbe e che meriterebbero riflessioni critiche chiare ed udibili che questo clima di perenne assedio rende, di fatto, impossibili.

Non è di generalizzate ed inesistenti derive giustizialiste od inquisitorie che si dovrebbe poter parlare, ma di singole vicende processuali o di specifiche tendenze. Per comprendere e far davvero comprendere quello che non va nella giurisdizione

Vicende come quella del sindaco di Riace “Mimmo” Lucano, finalmente conclusa con una modesta condanna ad un anno e sei mesi e pena sospesa, ma esordita con elefantiache indagini, misure cautelari per le quali non esistevano i presupposti (e basterebbe anche la sola, prevedibilissima eppur negata, sospensione della pena a dimostrarlo) ed una sentenza di condanna di primo grado a tredici anni e mezzo di reclusione, che Luigi Ferrajoli ha definito «un caso esemplare di quello che Cesare Beccaria, in contrapposizione a quello da lui chiamato “processo informativo”, basato sulla indifferente ricerca del fatto e sulla disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni, stigmatizzò come “processo offensivo”, nel quale …il giudice diviene nemico del reo e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose».      

O come le misure cautelari che attinsero nel 2022 otto operai della logistica piacentina, in gran parte immigrati che lottavano per i propri diritti. Iperbolicamente accusati di avere costituito e formato due associazioni per delinquere singolarmente coincidenti con le associazioni sindacali in cui militavano e commesso altri 143 delitti, per la gran parte coincidenti con l’esercizio di diritti sindacali e di sciopero. Ipotesi accusatorie anche queste franate in giudizio.  

O come il dato macroscopico di informative di reato, supinamente recepite dai PM, in cui il concorso di persone nei reati ipotizzati muta proprio in associazioni per delinquere inevitabilmente destinate al naufragio in sede dibattimentale, ma che consentono, nella fase delle indagini, l’uso di penetranti mezzi di ricerca della prova, come intercettazioni telefoniche ed ambientali e sovente anche l’emissione di misure cautelari.  

O come la prassi, affermata in un ufficio giudiziario di prima grandezza, di contestare il concorso in reati cosiddetti di piazza nei confronti di chi, presente alle manifestazioni in cui si ipotizza siano stati commessi, non abbia fatto nulla per impedirli.

O, ancora, come nei molti arresti e lunghe detenzioni di migranti sbarcati sulle nostre coste dopo essere sfuggiti a mille inferni, alla cui origine vi sono approssimative cognizioni del contesto e delle stesse dichiarazioni di parti e persone informate, tradotte da ausiliari privi di qualsiasi titolo tecnico-scientifico (nella gran parte dei casi, altri migranti conosciuti dalle forze dell’ordine e provenienti dallo stesso paese o da paesi limitrofi. Paesi spesso di sterminata estensione e nei quali si parlano decine o centinaia di dialetti equivalenti ad altrettante lingue). 

Essendo esemplari in tal senso le vicende di due giovani donne iraniane arrestate e sottoposte per lunghi mesi a custodia in carcere con l’accusa di essere «scafiste» ovvero per il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare[18]. La ventottenne curdo-iraniana Maysoon Majidi, dissidente, artista e membro di ONG che combattono il regime, fuggita insieme al fratello per scampare alla morte, arrestata sulle coste crotonesi ed assolta solo dopo un lungo processo ed una depressione che, in carcere, l’aveva fatta dimagrire di oltre trenta chili. E l’altra iraniana di Teheran, Jamali Marjan, fuggita insieme al figlio di otto anni per sottrarsi alle violenze di un marito padrone che aveva anche cercato di ucciderla. Sbarcata nella Locride ed anche lei arrestata, separata dal figlio e ristretta in carcere per lunghi mesi, ancora in attesa di giudizio. 

E si potrebbe continuare a lungo, ma non si ha memoria di editoriali indignati degli house organ della destra o di mobilitazioni delle Camere Penali e degli altri sostenitori della riforma.

 

10. Una postilla

La magistratura italiana difenderà la propria indipendenza e le norme della Costituzione repubblicana che la garantiscono. 

Non può fare diversamente, in un paese in cui i diritti e le esistenze dei più deboli sono quotidianamente calpestati e dei quali quell’indipendenza rimane un fondamentale presidio, spesso fragile e inadeguato, ma pur sempre uno dei pochi rimasti.

Non può fare diversamente in un mondo in cui persino la Corte Penale Internazionale ed i singoli giudici che ne fanno parte sono sotto attacco degli Stati Uniti e di diversi governi europei -compreso il nostro, che rimpatria con volo di stato un torturatore e stupratore di bambini- solo per avere preso sul serio, una volta tanto senza doppi standard, il mandato, loro conferito dalla convenzione di Roma, di perseguire i crimini contro l’umanità da chiunque e dovunque siano commessi.

Non può fare diversamente in un’Europa in cui la nuova costituzione ungherese del 18 aprile 2011 ha abolito il Consiglio Superiore della Magistratura e modificato radicalmente la Corte Costituzionale[19] ed in Polonia il PIS, appena andato al potere nel 2015, ha fatto all’incirca altrettanto, badando anche a riformare la figura del Procuratore Generale che veniva fuso con il Ministro della Giustizia[20].

Non può fare diversamente dopo che nella vicina Turchia -stato fra i più potenti e meglio armati della NATO e dal cui governo il Ministro Nordio raccoglie le sollecite preoccupazioni sulla legittimità dello sciopero dei magistrati italiani- centinaia di giudici sono stati licenziati, arrestati e perseguitati, molti di loro costretti a cercare la salvezza in mare ed alcuni periti in naufragi insieme alle loro famiglie. 

Quella Turchia in cui Murat Arslan, Presidente di una delle principali associazioni di magistrati giace in galera dal 2016 con l’accusa di terrorismo e quando, nel 2017, ha ricevuto il premio Vàclav Havel, scriveva a noi europei queste parole: «Vi parlo da una prigione in un paese in cui la legge è messa tra parentesi, in cui i valori della democrazia si stanno gradualmente allontanando, in cui le voci dissidenti sono soffocate, in cui i difensori della legge, i giornalisti, coloro che desiderano la pace, coloro che gridano perché i bambini non muoiano, sono decretati terroristi, in cui la prigione è il luogo naturale per i difensori dei diritti e delle libertà, un luogo in cui gradualmente la paura è immersa nell’oscurità»[21].

Oggi la magistratura italiana non può che difendere la propria indipendenza e la Costituzione e continuare a farlo finché le sarà dato di poterlo fare. Nella speranza che possano un giorno tornare «le lucciole» delle domande scomode[22], che pure la magistratura dovrà tornare ad esser capace di fare alla magistratura. Come quando una parte di essa mostrò di saper fare di fronte alla terribile vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, suscitando «scandalo, proteste e la crisi dell’ANM»[23].

Se riusciremo a fermare questa nefasta controriforma, se necessario con l’indispensabile aiuto di tutti i cittadini, specie i più deboli ed esposti agli abusi e alla violenza dei potenti, si potrà finalmente tornare a porre quelle domande con tutta la determinazione che è necessaria, ma purtroppo non è questo il tempo.   

 
[1] In luogo dell’unico consiglio Superiore, due diversi Consigli e un’Alta Corte disciplinare, in luogo di consiglieri togati eletti da tutti i magistrati, consiglieri estratti a sorte (a differenza dei  laici, che saranno prima scelti dal parlamento, seppur poi selezionati con sorteggio). Una frammentazione ed un depotenziamento il cui scopo risulta, come si dirà, evidente.  

[2] Un vero unicum peraltro: un giudice monocratico di primo grado incistato nella Corte d’Appello, che notoriamente è giudice collegiale e di secondo grado.

[3] Luigi Ferrarella, La giustizia fra il dire e il fare, Corriere della Sera, 5\2\2025.

[4] Rispettivamente 2 anni e un anno i tempi di attesa nel Tribunale di Milano, notoriamente il più celere d’Italia (L. Ferrarella, ivi).

[5] Nel documento intitolato  Riassunto schematico degli argomenti pro separazione, delle obiezioni e delle controbiezioni del 24 febbraio 2025.

[6] «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti», affermava entusiasta il Guardasigilli Alfredo Rocco nel 1929. I partigiani fecero amaramente le spese di quello spirito fascista nel ventennio ed è questa la ragione che spinse i costituenti a unificare la magistratura e ad  edificare un recinto di ferree garanzie a difesa della loro indipendenza.

[7] Metodo che consisteva nella «continua ripetizione di notizie parziali o palesemente false». Metodo efficacissimo e che convinse fino all’ultimo dei tedeschi, anche in prossimità del tracollo finale del Reich, che nuove e potentissime armi avrebbero ribaltato le sorti della guerra.

[8] https://www.dag.mef.gov.it/aree-tematiche/indennizzi/ingiusta_detenzione/index.html#:~:text=La%20riparazione%20per%20ingiusta%20detenzione%20%C3%A8%20un%20indennizzo%20da%20atto,%C3%A8%20assunta%20in%20via%20equitativa.

[9] Relazione prevista dall’art.15 della L.47/2015.

[10] Tutte le relazioni presentate in materia dal Ministro pro tempore possono essere consultate qui: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_14_7.page?search=relazione+parlamento+misure+cautelari&pageCode=homepage

[11] https://www.giustizia.it/giustizia/it/contentview.page?contentId=ART981590

[12]  http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCAR_NUM_PROC_PEN

[13] Oltre agli innumerevoli articoli, ricordiamo i due libri che ha dedicato all’argomento: I dannati della gogna, Liberlibri 2021 e La repubblica giudiziaria, Marsilio 2023.

[14] Così Iria González: https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/statuto-autonomia-e-autogoverno-del-pubblico-ministero-in-spagna.

[15] Così José P. Ribeiro De Albuquerque: https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-pubblico-ministero-portoghese-architettura-istituzionale-principi-garanzie-sfide

[16] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/relazione-giustizia-nordio

[17] Il Foglio 3 febbraio 2025.

[18] Art.12, T.U. immigrazione, nell’ipotesi aggravata di cui al 3° comma, norma di più che dubbia costituzionalità, che prevede la pena della reclusione fino a sedici anni.

[19] https://www.magistraturademocratica.it/articolo/ungheria-la-svolta-di-orban_06-02-2012-php/  –  https://www.questionegiustizia.it/articolo/stato-di-pericolo-e-poteri-straordinari-al-governo-ungherese_01-04-2020.php

[20] https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-del-sistema-giudiziario-polacco-e-le-risposte-del-consiglio-d-europa-un-quadro-dal-2015-ad-oggi

[21] https://www.questionegiustizia.it/articolo/dal-carcere-di-sincan-dove-e-detenuto-dal-19-ottobre-2016-murat-arslan-scrive-al-presidente-di-medel

[22] Sia consentita l’ineleganza di un’autocitazione: «MD ha smesso di porsi domande scomode 30 anni fa, al tempo dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio e di Mani Pulite. Prevalse doverosamente l’esigenza di non dividersi davanti all’orrore e sotto la pressione crescente del potere politico ed economico, di fronte ai reiterati tentativi di sbarazzarsi dell’indipendenza della magistratura. Non erano tempi per schisti nel muro compatto della magistratura. E così, impercettibilmente, abbiamo iniziato ad allontanarci dai luoghi ideali in cui si perpetuava il conflitto fra il potere ed i senza potere ed a recidere i legami con i soggetti collettivi, spesso diversi da quelli di un tempo, che agivano quel conflitto. Laddove donne e uomini si battevano per difendere i diritti del lavoro, dell’ambiente e del territorio, il diritto a non patire discriminazioni per ragioni di religione e origine etnica, di genere e di identità di genere. Ci allontanammo dai mille luoghi in cui era negato il diritto di avere diritti, anche quando ubicati all’interno dei palazzi di giustizia» (dall’intervento al XXIII congresso di  Firenze: https://www.radioradicale.it/scheda/641943/xxiii-congresso-nazionale-di-magistratura-democratica-magistrati-e-polis-questione?i=4298987).

[23] G. Palombarini, Giudici a Sinistra, Ed. Scientifiche italiane 2000, pg. 243. Dove può anche leggersi: «Di fronte a una magistratura, soprattutto quella napoletana, chiusa in una difesa corporativa (con polemiche alle quali presero parte anche magistrati che avevano svolto le proprie funzioni nel processo) MD chiese di sapere, evidenziando subito come un’oggettiva difficoltà per i necessari chiarimenti fosse data dalla presenza in CSM del dott. Di persia, uno dei Pubblici Ministeri di quel processo, eletto al Consiglio nelle liste di MI».





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