Da dove viene la musica che ascoltiamo, quella che troviamo su Spotify e su tutte le altre piattaforme di streaming audio?
Ovviamente ci sono, come sempre, le grandi etichette discografiche, le così dette major che si contendono, a suon di miliardi, i grandi cataloghi discografici, le hit più commerciali e radiofoniche, i grandi tormentoni, più o meno finti e più o meno artefatti e anche, ovviamente, le nuove remunerative promesse del pop, del rap, della trap o di qualsiasi altro genere musicale riesca ad intercettare l’attenzione delle grandi masse di ascoltatori.
E, come sempre, all’ombra delle major, ci sono le piccole etichette indipendenti – il cui compito è scovare, scoprire, guardare oltre la superficie del mainstream, andare in profondità, non accontentarsi di quello che, al momento, è ritenuto vincente e commercialmente appetibile.
E, infine, a differenza dei decenni passati, c’è una immensa mole di canzoni, di album, di singoli o di EP che, grazie all’avvento di internet, grazie alle varie piattaforme digitali di auto-distribuzione, grazie alla possibilità di crearsi degli studi domestici di registrazione, grazie alle innovazioni tecnologiche, grazie ai costi non eccessivi e ai mirabolanti e sofisticati software di produzione e di mixaggio, giunge, nelle nostre case, nei nostri ambienti di lavoro, nelle nostre auto e nei locali che frequentiamo, con un semplice, innocente e repentino click del mouse.
Musica della quale, il più delle volte, ignoriamo l’esistenza; musica che non ascolteremo mai; musica che, onestamente, non è nemmeno questa gran cosa; musica distribuita solamente per appagare l’ego di qualche povero sprovveduto; musica che non ha proprio nulla di significativo o di interessante da trasmettere e da condividere con gli altri. Ma, in fondo, perché mai il mio vicino, il mio amico, la band di ragazzini che prova qui sotto o lo sconosciuto che incontro in metro, non dovrebbero provarci, tentando di arrivare, direttamente, su quelle stesse piattaforme virtuali di streaming audio sulle quali risiedono i loro miti e i grandi artisti o band che essi tentano di emulare?
Probabilmente, il solo fatto di condividere, con loro, il medesimo spazio digitale, per quanto esso sia uno spazio astratto e impersonale, rappresenta uno strano traguardo, anche se, ovviamente, si tratta di un traguardo piuttosto triste, effimero ed inutile. Un sogno che qualcun altro sta, in realtà, abilmente sfruttando e monetizzando, affinché la loro musica, anche senza un particolare valore artistico, anche senza un interessante messaggio, anche senza una vera e propria etichetta alle spalle, anche senza il lavoro, l’impegno e la cura di professionisti ed esperti del settore, nonché senza un vero e proprio studio di registrazione, possa – in teoria – essere ascoltata e trasformata in quel numero impressionante di like, di passaggi e di follower in grado di cambiare loro la vita.
Ma, normalmente, tutto questo non avviene, normalmente resta solamente la delusione e, talvolta, una pericolosa e distruttiva pressione psicologica, perché, ricordando ciò che ci ha spiegato Andy Warhol, se è vero che, da un lato, abbiamo garantito la democratizzazione spregiudicata della fama, non è vero, dall’altro, che chiunque abbia, realmente, la possibilità concreta di raggiungere i suoi agognati quindici minuti di presunta celebrità. Il più delle volte, infatti, bisogna accontentarsi del rapido, fugace, inconsistente e insignificante passaggio sulla pagina di un amico, di un collega o di un parente.
Rilevanza zero.
È questo, in fondo, il risultato concreto di gran parte della musica prodotta, anche perché, è bene sottolinearlo, la quantità di musica digitale è abnorme e fuori controllo. Nel solo 2024, ogni singolo, dannato giorno, è stato prodotto e diffuso, nel mondo, un volume di musica che, nel non troppo lontano 1989, veniva pubblicato in un anno intero, secondo Will Page, ex economista capo di Spotify e di PRS For Music. E tutto ciò, viste anche le previsioni esistenti per i prossimi anni – nel 2030 si stimano più di 198 milioni di potenziali creatori musicali – fa capire come, in realtà, ci stiamo, sempre più, muovendo, verso una vera e propria sorta di imbuto virtuale, una strettoia cibernetica dalla quale in pochissimi riusciranno, con i soli propri mezzi e con le sole capacità artistiche, a venire fuori. Tutto ciò, ovviamente, significherà soldi, molti soldi, tanti soldi, per coloro che sapranno trasformare il sogno di questa moltitudine in servizi di diffusione più appetibili, in strumenti software di produzione e di mixaggio più potenti, in prestazioni pubblicitarie più efficaci, in qualsiasi cosa – reale o virtuale – consenta a costoro di sentirsi parte di un mondo che, in fondo, di loro, non si è mai accorto e, molto probabilmente, non si accorgerà mai.
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