Il calcio mormorò: passi pure lo straniero


Criptovalute, agenzie di scommesse, fondi di investimento non proprio trasparenti. È un benvenuto urbi et orbi concretizzato nell’ennesima bozza salvacalcio messa a punto a suon di facilitazioni agli investitori, agevolazioni fiscali, e via libera agli sponsor dell’azzardo online

Governo sovranista? Prima gli italiani? Prima i soldi. Se vengono dall’estero, meglio. Se vengono dagli Usa, è l’ideale. Finché Donald Trump non metterà i dazi su chi investe in portieri, centravanti e terzini, vale la pena approfittarne ed è questo che stanno facendo gli organi di governo del calcio, coadiuvati dal legislatore, per rifornire le casse di un sistema in eterna emergenza finanziaria. Criptovalute, agenzie di scommesse, fondi di investimento non proprio trasparenti. È un benvenuto urbi et orbi concretizzato nell’ennesima bozza salvacalcio messa a punto dalla settima commissione del Senato dedicata a cultura, sport e ricerca. Ma non è tanto l’aspetto culturale in discussione quanto le facilitazioni agli investitori, le agevolazioni fiscali, lo sdoganamento degli sponsor dell’azzardo online.

 

Con l’abolizione prevista del decreto dignità ideato per combattere la ludopatia da Luigi Di Maio e approvato nel luglio 2018 durante il primo governo di Giuseppe Conte, il betting avrà semaforo verde nelle sponsorizzazioni. Il guadagno, secondo i promotori della norma, sarebbe di un centinaio di milioni l’anno. È il costo di un calciatore di prima fascia di quelli che in Italia non si vedono dai tempi di Cristiano Ronaldo alla Juventus, bella storia d’amore finita in un contenzioso sul salario con risarcimento di 9,7 milioni più interessi per il fuoriclasse portoghese. Dopo due mancate partecipazioni consecutive ai Mondiali (2018 e 2022) i sempre incolpevoli dirigenti del pallone avevano annunciato il rilancio dei vivai, nuovi format dei campionati, riforme ad angolo giro. Tre anni dopo, la situazione è immutata. I vivai sono in secca, nessuno parla più di ridurre i club professionistici e gli italiani continuano a non giocare.

 

All’indomani dell’eliminazione dall’Europeo 2024 agli ottavi contro la Svizzera, il dato aveva provocato l’intervento della presidente del consiglio. Giorgia Meloni aveva rivelato al canale berlusconiano Retequattro: “I calciatori italiani della serie A sono sempre di meno. Nel 2024 rappresentano solo il 35 per cento. C’era una norma di Giuseppe Conte che estendeva ai calciatori stranieri i benefici fiscali previsti per il rientro dei cervelli. Noi abbiamo deciso di toglierla”. La norma è il decreto crescita, entrato beffardamente in vigore il primo maggio del 2019 a opera del governo giallo-rosa. In realtà, questo decreto rientrerà in gioco sotto altra forma, come spiega il presidente della Lega di serie A Ezio Simonelli nell’intervista a pagina 14 del settimanale.

 

Sulla legge che, fra l’altro, consentiva una tassazione piatta e minimale per gli ingaggi dei campioni stranieri è sorto un problema fra la premier, chiamata a sconfessare se stessa, e le quinte colonne forziste del calcio italiano. Nella settima commissione senatoriale c’è Adriano Galliani, successore del compianto Silvio Berlusconi a palazzo Madama e alla guida del Monza. Il suo collega di partito, il presidente della Lazio Claudio Lotito, è vicepresidente della quinta commissione (Bilancio) e membro della sesta (Finanze), che dovrebbero intervenire nella messa a terra di eventuali sgravi.

 

Il prossimo 10 marzo se ne parlerà in un vertice a tre fra il ministro dello Sport Andrea Abodi, il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, e lo stesso Simonelli, che ha avuto incarichi in Mediolanum, Mondadori, Fininvest e in una delle controllanti di Fininvest, Holding Italiana Prima. L’incontro darà la linea a una riorganizzazione che comprende il tax credit e una quota per i club sugli incassi erariali da scommesse. Tutto pur di aiutare il calcio come forza trainante del valore aggiunto. C’è chi la chiama la settima industria, c’è chi parla di oltre 11 miliardi di euro «d’impatto sull’economia», pari a mezzo punto di Pil. Di sicuro il football professionistico, soprattutto in serie A, è sempre più un’attività extraterritoriale. Undici delle venti squadre sono controllate da capitali stranieri. La dodicesima, e più scudettata, si chiama Juventus e i 200 milioni necessari per il suo ultimo aumento di capitale arrivano da Exor Nv, finanziaria olandese che fa riferimento a John Elkann e che ha appena ceduto il 5 per cento del club bianconero a Tether, società di criptovalute di Paolo Ardoino

 

La fonte energetica primaria del business della serie A, che è complessivamente in perdita per circa 350 milioni, sono i diritti tv (1,5 miliardi) pagati dalla multinazionale Sky del gruppo Usa Comcast e, per la maggior parte da Dazn di Leonard Blavatnik, cittadino sovietico alla nascita e oggi con doppio passaporto britannico e statunitense. La piattaforma di Blavatnik è, a sua volta, in rosso fisso (1,45 miliardi di dollari nel 2023 a livello mondiale) ed è soggetta a trasfusioni annue di capitale nell’ordine di centinaia di milioni. Tre settimane fa il monarca saudita Mohammed bin Salman ha acquisito una quota di minoranza di Dazn per 1 miliardo di dollari. La principale voce di spesa della serie A sono, come sanno anche i bambini che tifano, gli stipendi dei dipendenti ossia calciatori, allenatori e staff tecnico. Nella stagione scorsa i costi per il personale hanno sfiorato i 2 miliardi di euro. Pochi di questi soldi restano in Italia.

 

Nell’ultima giornata di campionato, quella del big match fra il Napoli di Aurelio De Laurentiis e l’Inter di Oaktree, un’escursione fra i tabellini presenta la triste verità. Sui 220 titolari in campo al fischio d’inizio i cittadini italiani erano 76 pari al 34,5 per cento. Milan e Como, targati rispettivamente Usa e Indonesia, avevano un solo italiano in campo. Le romane ne presentavano due a testa. L’unica partita con italiani maggioritari, tredici titolari su ventidue, è stata Genoa-Empoli, non precisamente un match di cartello. Fra le prime dieci squadre in classifica la quota di titolari italiani scende al 30,9 per cento. È la dimostrazione che i giocatori nostrani, già scarsi per numero, sono ritenuti tali per qualità. Questo vale a maggior ragione per i tornei esteri dove la loro attrattiva è marginale, esclusi i casi di Riccardo Calafiori passato all’Arsenal e di Sandro Tonali che dopo un anno di squalifica per scommesse gioca nel Newcastle del fondo sovrano saudita Pif. 

 

Nelle serie inferiori l’intero sistema è in deficit. Più si scende di livello, più lo sbilancio aumenta. Durante la stagione 2022-2023 la serie B ha perso 330 milioni di euro. È poco meno della serie A ma è un’enormità in proporzione a ricavi che sfiorano i 780 milioni di euro rispetto agli oltre 3,1 miliardi della prima divisione. La serie B è l’anticamera del disastro economico della Lega Pro dove sembrano tornati gli anni ruggenti delle penalizzazioni per ritardi nei versamenti di stipendi e contributi previdenziali. Mentre L’Espresso arriva in edicola, il tribunale nazionale federale della Figc è chiamato a decidere su un caso terminale (Taranto), uno gravissimo (Turris) e tre penalizzazioni ordinarie (Messina, Lucchese, Triestina). Fra le squadre che hanno perso punti per irregolarità contabili ci sono anche il Novara, la Spal, la Ternana, il Rimini e il Catania.

 

Eppure la terza serie doveva essere centrale nella funzione di rilancio dei vivai tanto che una delle numerose riforme federali aveva richiesto ai club maggiori di organizzare una seconda squadra da mandare nella vecchia serie C, a imitazione del modello spagnolo. La prima a farlo è stata la Juventus guidata da Andrea Agnelli nel giugno 2018. Quasi sette anni dopo si sono aggiunte soltanto l’Atalanta Under 23 e, dallo scorso anno, Milan Futuro che rischia di retrocedere fra i dilettanti della serie D. L’anno prossimo dovrebbe arrivare al traguardo anche l’Inter, secondo l’annuncio recente dell’ad Beppe Marotta. Gli altri club stanno a guardare. D’altra parte, non è pensabile l’imposizione forzosa di altri costi a imprese private che cercano il lucro, non la beneficenza.

 

Se la situazione finanziaria è in rosso fisso, almeno si potrebbe sperare nei risultati del campo. Con la stagione in pieno corso c’è solo una squadra in corsa agli ottavi della Champions league, la più importante e più ricca competizione europea per club. È l’Inter che ha vinto l’ultimo scudetto sotto la guida di Steven Zhang. Il rampollo del gruppo industriale Suning non ha badato a spese per i nerazzurri fino all’ultimo, quando suo padre Zhang Jindong era scomparso dai radar e lui stesso non poteva lasciare il territorio della Repubblica popolare. Un mese fa tre società di Suning sono finite in bancarotta, ma l’Inter era già stata messa in sicurezza con il passaggio delle azioni al suo principale creditore, il fondo californiano Oaktree.

 

I rivali del Milan sono un po’ meno in sicurezza. Con un azionista statunitense accompagnato dal coro della San Siro rossonera (“Cardinale devi vendere, vattene, vattene”), il club presieduto da Paolo Scaroni è nave senza nocchiero in gran tempesta sportiva. Lontano dai soldi che garantisce la Champions league, il Milan sembra più interessato al marketing e alle magliette “special edition”. L’ultima, esibita nella sconfitta in casa contro la Lazio e sponsorizzata dalla cripto Bitpanda, era una via di mezzo fra la divisa della Ternana e quella del Portogallo di Rafa Leão o, meglio, del procuratore Jorge Mendes, molto influente sulle scelte di mercato del club controllato da Redbird di Gerry Cardinale grazie al prestito del fondo newyorkese Elliott. 

 

Dopo quindici anni di colonizzazione nordamericana, iniziati con la Roma del bostoniano Tom Di Benedetto, ci sono varie ragioni di interesse per un modello di entertainment in perdita strutturale da parte di imprenditori abituati a ragionare esclusivamente in termini di profitto. Un motivo solido dell’attrattiva italiana sono certamente gli incentivi di Stato. Fra le cause concorrenti c’è che la Mls (major league soccer), il campionato Usa-Canada, pare destinata a reggere la coda delle leghe professionistiche più ricche: il basket della Nba, il football della Nfl, il baseball della Mlb e perfino l’hockey su ghiaccio della Nhl. Gli ingaggi di campioni a fine carriera come l’ex trio del grande Barcellona Messi-Busquets-Suárez a Miami sono esperimenti in vitro quasi quanto la nuova mecca calcistica saudita, lanciata con centinaia di milioni e già con il fiato corto.

 

Ultimo ma fondamentale movente riguarda i nuovi stadi. L’aspetto immobiliare interessa alla pari i proprietari esteri e quelli nazionali, come Lotito o Aurelio De Laurentiis. La Lega di A e i suoi lobbisti al governo sono compatti nell’invocare percorsi facilitati dal governo, soprattutto perché il rinnovamento interessa città molto appetibili per il real estate come Milano, Roma, Firenze, Venezia, Bologna. Resta invece fumosa la parte normativa dedicata alla vigilanza sui capitali. Oggi è in sostanza inesistente. Sarà così anche con la nuova legge. Il denaro del calcio è timido. Troppi controlli lo spaventano.



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