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Soldati europei in Ucraina. In cosa consiste il piano Trump per la fine della guerra #finsubito prestito immediato


Duecentomila soldati in Ucraina. No, non è l’inizio della Terza guerra mondiale o di uno scontro tra Nato e Federazione Russa con i suoi alleati. È invece il piano immaginato dal nuovo (vecchio) presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per porre fine alle ostilità tra Kiev e Mosca e riaffermare la potenza americana quale king maker delle relazioni internazionali.

L’idea non è peregrina e affonda le radici in precedenti discussioni che, a partire dalla Francia di Emmanuel Macron, hanno già in passato posto l’accento sulla inevitabile partecipazione militare europea a garanzia della fine del conflitto. O meglio, di un suo congelamento.

Il presidente francese già nel 2023 aveva parlato di un possibile invio di istruttori europei per coadiuvare gli sforzi dei generali ucraini nel respingere gli assalti russi, e più volte ha ribadito il concetto. Ora, però, si è fatto un salto quantico in avanti: la proposta «trumpiana» si spinge molto oltre le intenzioni di Parigi e, in perfetto stile Trump, la nuova amministrazione asfalta ogni altra voce in capitolo nella convinzione di poter imporre una pax americana in Europa, con gli Stati Uniti a fare da arbitri su un conflitto che ha superato i mille giorni di guerra combattuta e che promette di fare un milione di morti sommando le perdite di ambo le parti.

Ma cosa intende fare davvero Donald Trump? In sostanza, come ha fatto trapelare Keith Kellog, consigliere speciale del presidente Usa in pectore (e già consigliere per la sicurezza nazionale durante la prima presidenza Trump), quello che già Washington ventilava ad aprile è diventato un progetto concreto dopo la conferma della vittoria repubblicana: il piano prevede la creazione di una zona demilitarizzata lungo l’attuale linea di contatto tra i due eserciti russo e ucraino. Linea di contatto che da Chernhiv (a nord) arriva a Kherson (a sud) e che sostanzialmente non si muove da molti mesi, salvo qualche timido passo in avanti di Mosca. Qui il prossimo anno opererebbero i 200 mila soldati, con una missione di peacekeeping a garanzia del rispetto dei nuovi confini.

Confini che inevitabilmente contemplano una riduzione del territorio sovrano dell’Ucraina, che dovrebbe di conseguenza accettare di concedere un suo buon 20% alla Russia, e segnatamente il Donbass, la Crimea, le regioni di Rostov e Zaporizhzhia. In cambio, Kiev otterrebbe la fine immediata del conflitto e la garanzia della propria sicurezza per mezzo del suddetto contingente europeo e attraverso la supervisione del governo americano, che vigilerebbe sugli eventuali sconfinamenti russi comminando «multe» o meglio nuove tassazioni (ad esempio, sulle esportazioni di energia russa) e provvedendo a rifornire di nuovi armamenti l’Ucraina a ogni passo falso di Mosca.

In nessun caso, secondo questo piano, il governo ucraino otterrebbe un via libera per l’adesione alla Nato, per non provocare nuove e irragionevoli aggressioni russe lungo la linea demilitarizzata e per convincere lo scettico Putin a sedersi al tavolo negoziale. Tale piano potrebbe essere discusso (ed eventualmente attuato) già prima della fine dell’inverno, con le truppe europee di peacekeeping che si dovrebbero mobilitare entro gli inizi della primavera.

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Tuttavia, vi sono almeno tre aspetti che non consentono di essere troppo ottimisti. Anzitutto, l’approccio stesso degli Stati Uniti di Trump: la sua politica, o meglio il suo approccio alle questioni interne come a quelle internazionali, è sempre dettato dall’urgenza di chiudere un buon accordo sullo stile delle contrattazioni di Wall Street. Ma questo metodo, noto come quick and dirty, cioè «veloce e sporco», può andar bene per ostacoli semplici da superare come l’ok all’avvio di un cantiere a Manhattan, per una transazione a saldo e stralcio o ancora per una risoluzione giudiziaria, e persino per un accordo energetico o imponenti scambi commerciali tra due potenze dialoganti.

Ma non è detto che l’approccio quick and dirty funzioni quando in gioco ci sono la vita stessa delle persone, il concetto di nazione indipendente, e le future relazioni politico-economiche tra Asia ed Europa. Gli accordi di Minsk siglati tra il 2014 e il 2015 sono lì a dimostrarlo: indipendentemente da quale delle due parti non li abbia rispettati e dal perché, ciò che hanno prodotto tali fragili patti è stata una guerra fratricida meno di sette anni dopo.

Non solo. Trump ha ragione nel prospettare un impegno militare targato Ue nel quadrante di competenza europea. Il suo concetto è: perché mai l’America dovrebbe impegnarsi boots on the ground in Europa per fermare la Federazione Russa, quando può farlo l’Europa stessa? Il ragionamento fila perché, come visto, un impegno meramente europeo nella crisi lo ha paventato lo stesso Emmanuel Macron, trovando dalla sua anzitutto il governo del Paese più esposto alla guerra, ovvero la Polonia del premier Donald Tusk (già presidente del Consiglio Europeo).

Il grande problema non è – o non soltanto – politico, semmai pratico: un esercito europeo non esiste ancora, e dunque non si può fare. A meno che non si voglia seguire la strategia quick and dirty di Trump, raffazzonando una forza multinazionale d’Europa che, non si sa bene con quali mezzi o vessilli, dovrebbe provvedere a mobilitare 5, 10 o 15 mila soldati per ogni Paese membro dell’Unione europea, a seconda delle capacità, e spedirli a difendere un confine tragicamente caldo e instabile. Ma con quali regole d’ingaggio?

Se Mosca (e Pyonyang, visto che le truppe nordcoreane oggi combattono al fianco dei russi) dovessero non rispettare gli accordi, che si fa? Con la velocità di risposta di Bruxelles in un simile evento, un conflitto a fuoco costringerebbe gli euro-soldati ad arretrare e abbandonare le linee per evitare di ingaggiare un conflitto a fuoco che nessun generale dell’Unione verosimilmente autorizzerebbe.

Ma il problema è soprattutto un altro: sotto la guida di chi agirebbe questo esercito europeo? Visto che l’unione politica dell’Europa è ancora un progetto incompiuto, quale nazione si prenderebbe la responsabilità di guidare de facto l’armata europea di peacekeeping? Non certo la Germania, che alla fine dell’inverno non avrà ancora un governo stabile e non saprà ancora che linea di condotta adottare nei confronti del partner da cui per lungo tempo è dipesa la sua salute economica. Di certo si candiderebbe la Francia che, di là dalle ambizioni del suo presidente, tuttavia ha a sua volta grossi problemi di governabilità interna per via delle interlocutorie elezioni che hanno ridotto il potere personale di Macron.

Inutile ironizzare sull’Italia, che non ha né i mezzi né la cultura bellica né una leadership riconosciuta a livello internazionale per guidare una transizione militarizzata che potrebbe durare finanche decenni, come fu per il muro di Berlino. Senza contare che Berlino stessa, così come Parigi e Roma – ovvero i tre maggiorenti dell’Ue – dovrebbero fare i conti anche con Londra e la sua pervicace ostilità nei confronti del Cremlino. L’impegno britannico nel coordinare la difesa ucraina è stato determinante in questi tre anni di guerra, e tuttora gli istruttori inglesi fanno la differenza sul campo, consentendo a Kiev di ottenere qualche risultato utile laddove i russi sono incapaci di avere la meglio.

A Washington si prendono in considerazione anche altre opzioni: passare per il coordinamento dell’Osce, ovvero l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea; oppure mettere in campo una Risoluzione Onu e dunque schierare le forze di peacekeeping meglio note come caschi blu. Nel primo caso, si tornerebbe daccapo, con l’Europa impreparata a gestire una vicenda più grande di lei; nel secondo andrebbe forse ancora peggio, considerato che il Consiglio di Sicurezza Onu non raggiungerebbe mai la maggioranza necessaria a votare una risoluzione contro la Russia, per via dell’impianto stesso delle Nazioni Unite fatto di veti e contro veti che da anni ne immobilizzano l’azione.

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E poi basterebbe osservare ciò che hanno potuto fare i caschi blu al confine tra Israele e Libano, cioè niente – anzi peggio di niente, costretti a rintanarsi in una base e a subire l’aggressione delle forze in armi – per sapere quanto colossale sarebbe il suo fallimento, uno così grande che potrebbe addirittura minare nelle fondamenta non solo la reputazione ma la stessa esistenza dell’Onu.

Dunque, il piano Trump è già oggi un’opzione non praticabile se non vi sarà un impegno diretto degli Stati Uniti. Nel frattempo, altre guerre richiederebbero una gestione americana più significativa: vedi il Medio Oriente, dove Israele avanza e dove si è appena affacciata una nuova realtà piuttosto interlocutoria, la Siria degli islamisti, con tutte le sue contraddizioni e i rischi che questo comporta, complice una Repubblica Islamica dell’Iran sempre più traballante e una Turchia (seconda potenza della Nato per numeri e capacità belliche) sempre più volitiva. Senza contare il Caucaso in fiamme, con Georgia e Moldavia in odor di rivolte civili.

La speranza di Donald Trump di pacificare in pochi mesi l’Eurasia per meglio concentrarsi sulla guerra commerciale con la Cina non fa i conti con la realtà di un presidente, quello degli Stati Uniti, che ha dalla sua il fatto di essere la superpotenza più forte che il mondo abbia mai avuto dopo l’Impero romano, ma che ha anche un tempo limitatissimo, quattro anni appena, e una strada piena di ostacoli per sviluppare un piano di stabilità e duraturo.





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