“Corsa alle armi? Non ci rende né più europei né più sicuri”


«È un azzardo zeppo di retorica e di rischi, premia solo produttori e commercianti d’armi: si arricchiranno soprattutto quelli d’Oltreatlantico. Si vuole la difesa comune o si sta chiamando alla mobilitazione nella guerra d’Europa?»

Marco Tarquinio, europarlamentare, già direttore di Avvenire. Ursula von der Leyen lancia il piano di riarmo UE: 800 miliardi per la difesa. È questa la risposta appropriata alle brutali mosse di Trump sull’Ucraina?
Vedo un piano per acquistare armi, non per far riacquistare ruolo all’Europa. Vedo che la Commissione europea e i capi di governo della UE invocano l’art.122, norma che fa saltare il confronto con l’Europarlamento, e approvano di corsa e all’unanimità un testo intitolato ReArm Europe che consente loro di indebitarsi per riempire i diversi arsenali nazionali. La maggior parte di queste armi gli europei – magari tutti insieme, ma anche no – andranno a comprarle negli Usa di Trump e probabilmente anche nell’Israele di Netanyahu, che primeggia in software bellici e scudi missilistici. Stiamo rispondendo alle spallate e ai diktat di Trump? Sì, con qualche strepito e tante compere.

Von der Leyen ha spiegato che il ricorso all’art. 122 del Tfue è dovuto all’urgenza. E si sono già alzati i peana della stampa mainstream: volevate la difesa comune, eccola…
La difesa comune è urgente, ma non si può fare d’urgenza. D’urgenza si sta facendo il riarmo contemporaneo dei 27 Paesi europei. Lo ripeto: siamo al riarmo contemporaneo, non alla difesa comune. C’è chi dice esercito, marina e aviazione comuni verranno poi. Già, quando? E poi ci vorrebbero anche intenzione e capacità d’azione politico-diplomatica comuni, strategie cooperative internazionali comuni, comuni corpi civili di pace. La difesa non è solo armi spianate, anzi dovrebbe esserlo sempre meno. E organizzare la difesa comune vuol dire dotarsi di strumenti per prevenire la guerra. Non per “prepararsi anche alla guerra” come ha tuonato il 22 gennaio scorso l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza della UE, Kaja Kallas. Ma insomma: si vuole la difesa comune o si sta chiamando alla mobilitazione nella guerra d’Europa?

Lei come si risponde?
Che sento aria di mobilitazioni e affaroni. E non mi piace affatto. Fa male alle nostre società e radicalizzerà ancor più la politica.

Mi pare chiaro che lei è contro il piano von der Leyen.
Sono contrario all’ulteriore impennata delle spese militari. Non ci rende né più europei né più sicuri. È un azzardo zeppo di retorica e di rischi, e premia solo produttori e commercianti d’armi. Lungo questa via si arriverà tra un po’ a piazzare le industrie militari al centro del sistema manifatturiero della Ue e, intanto, si arricchiscono soprattutto gli armieri d’Oltreatlantico. Mi sembra il trionfo di quello che Eisenhower, lasciando nel 1961 la presidenza USA definì con allarme il “complesso militare-industriale”. Evocò “l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative” e avvertì che questa minaccia “esiste ora ed esisterà in futuro”. Parlava, Eisenhower, nella sua epoca e alla sua America. Ma vale per tutti e ora più che mai.

C’è anche la banalizzazione crescente dei discorsi sul ricorso ad armi e ombrelli nucleari…
Certo che c’è. Per colpa di Putin, di Trump, di Musk e anche di Macron. E queste apocalittiche elucubrazioni e minacce sulla Bomba ci assediano ormai da tre anni. Ma mi preoccupa altrettanto il ritorno annunciato negli arsenali UE di mine antiuomo e bombe a grappolo. Alcuni Stati europei hanno deciso di schierare di nuovo queste armi terribili che fanno più tremende le guerre e le continuano pure quando sono formalmente finite, perché restano seminate e avvelenano di morte le terre sulle quali si dovrebbe tornare a vivere e a lavorare. La Polonia e la Lituania hanno già dichiarato di volerle riavere. Ebbene, se non si porranno condizionalità, cioè limiti precisi, che oggi non mi risultano essere presenti nel ReArm Europe, tutti noi pagheremo, almeno in parte, quelle armi. E ne porteremo la responsabilità morale. Come si fa a far finta di niente?

Lei è un indipendente eletto nel PD, ma la sua posizione e quella della segretaria del Pd Elly Schlein appaiono assai vicine.
Apprezzo molto la posizione di Elly Schlein. Sta compiendo un lavoro importante e davvero europeista. È la leader del PD, ovvero della principale forza nella famiglia europea dei Socialisti e Democratici, e sta articolando un “no” ragionato e fermo a questo riarmo insensato e autolesionista. L’ho sentita anche ribadire che non si può fare la pace sulla testa degli ucraini e delle ucraine, ma questo non significa smettere di cercare una pace giusta, attraverso il cessate il fuoco e il negoziato. Una linea limpida, che mi fa sentire per la mia parte ancora più impegnato.

Eppure, diversi opinionisti sono tornati a definire poco chiara la linea di Schlein o, al contrario, l’hanno accusata di stare con i pacifisti e, ovviamente, con Putin.
Tutte le volte che Schlein indica una linea chiara, pacificamente chiara, e che non piace, arriva puntuale la sentenza: “Non si capisce che cosa voglia dire” o, al contrario, “sta andando dove la porta il cuore”. Beh, infinitamente meglio andare dove porta il cuore che dove spingono i tamburi di guerra… Anche perché al cuore del lavoro paziente e realista per la pace e la giustizia sociale non c’è una congrega di sfaccendati sognatori, ma gente che si spende in tanti modi concreti. E soprattutto la parte della pace è la parte della gente vera, che non vuole la guerra per nessuno e certo non per sé, per i figli e le figlie.

Secondo lei la UE ha alternative?
Sì, ha alternative. E ha doveri. Abbiamo bisogno di una UE capace di dimostrare al mondo che c’è un altro modo di fare politica, di tessere relazioni diplomatiche e commerciali, di svilupparsi, di organizzare le forze armate, di difendere umanità e pace. E il momento è proprio questo, sotto la sfida di potenti prepotenti, come Putin e come Trump.

Per quali motivi allora è favorevole alla Difesa comune europea?
Perché ridarebbe slancio al processo di integrazione comunitaria. Era uno dei quattro grandi traguardi comuni indicati da Spinelli e De Gasperi: assemblea elettiva, unione politica, fiscale e di difesa. Lo è ancora, anche perché la difesa comune implica e, per così dire, impone una guida politica comune. È un tratto essenziale del profilo adulto di una UE capace di alleanze e collaborazioni alla stessa altezza con vecchi e nuovi partner. Qualcosa di molto diverso dal rapporto tra USA e gli altri Paesi della NATO, un’alleanza che è continuamente cresciuta nei numeri e si involuta nelle finalità, con una inadeguatezza messa a nudo dalla politica dirompente e aggressiva di Trump. Ma c’è un altro punto che mi sta a cuore: una vera difesa comune sarebbe meno costosa.

Su quali basi lo sostiene? Tanto più che secondo alcuni ricercatori e molti media Mosca spende oggi in armi più di tutta la UE.
Non c’è dubbio che Mosca, all’ombra di 6.000 testate atomiche, stia spendendo un’enormità in proporzione alla forza del suo sistema. E questo è prima di tutto un problema per il popolo russo. Ma stiamo a noi. Costruire una difesa comune significa anche fare economia di scala, non duplicando più strutture e spese o addirittura moltiplicandole per ventisette. Mario Draghi aveva cominciato a dirlo nel 2022. Quanto alla comparazione tra Russia ed Europa, mi affido a un economista dell’autorevolezza di Carlo Cottarelli e al suo Osservatorio sui Conti pubblici promosso dall’Università Cattolica di Milano. Cottarelli ha dimostrato che in dollari internazionali la spesa annua 2024 degli Stati UE è stata più alta di quasi il 19% di quella della Russia, che pure è ufficialmente in “economia di guerra”, mentre la spesa dei Paesi europei che fanno parte di UE e NATO – dunque i Ventisette più Gran Bretagna, Turchia e Norvegia – supera quella di Mosca del 56%. In cifre assolute: 461,6 miliardi di dollari internazionali per la Russia rispetto ai 547,5 dei soli Paesi UE e ai 719 dei Paesi europei di UE e NATO. Questi sono i fatti. C’è da spendere meglio, non di più. C’è da mettere insieme le forze, non da gonfiare i muscoli di Stati nazionali e, in più di un caso, a guida nazionalista anche per un disagio sociale crescente e per le guerre tra poveri che vengono alimentate a suon di tagli della spesa sociale e di slogan odiosi.

È indubitabile che mentre Putin tratta con Trump, la Russia continua ad armarsi e a fare guerra. Perciò la UE è solidale con Zelensky. Ma la stessa UE resta inerte su Gaza e davanti alla pulizia etnica messa in atto da Israele. In attesa di fare della Striscia la “Riviera del Medio Oriente” senza un palestinese in circolazione…
È vero. Ed è insopportabile per la ragione e per la coscienza. Ma è anche disastroso per la Ue e soprattutto per le vittime di azioni di guerra e giochi di potere. Per questo non dobbiamo continuare a stare ai margini e fuori dei processi negoziali che sono stati riattivati con violenti scossoni da Trump e dai suoi. Bisogna raddrizzare quei tavoli di trattativa. Bisogna consentire all’Ucraina, sbranata dalla guerra, di sedervi senza inaccettabili umiliazioni. E c’è da impedire che la sorte di quel che resta della Palestina, fatta a pezzi nell’ultimo quarto di secolo da Hamas e dalle ultradestre israeliane, sia un affare deciso da Trump e Netanyahu. Altrimenti non ci sarà vera pace.

Come si argina, dal suo punto di vista, il “ciclone Trump” che si è abbattuto sull’Europa?
Bisogna riaccendere la fiducia cittadina nell’Europa non sfornare più carri armati. E dobbiamo avere, noi, passione per l’Europa, non l’ossessione della Russia di Putin e neppure degli Stati Uniti di Trump. Servono visione e tutta la solidarietà possibile, sapendo che diversi capi di governo europei – cito solo l’ungherese Orbán – solidali purtroppo non lo sono affatto. E bisogna avere obiettivi e nervi saldi.

Sarà in piazza per l’Europa il 15 marzo?
Il 15 marzo sarò a Santiago del Cile per la riunione della Commissione parlamentare paritetica Ue-Cile. Non posso e non voglio mancare anche perché sono anche il relatore permanente su questo grande Paese sudamericano. Ma se fossi stato a Roma sarei andato in piazza con due bandiere: l’Europa e la Pace.



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