Il legame tra clima e salute è uno dei temi più urgenti e dibattuti nella comunità scientifica globale. «Il cambiamento climatico, o crisi ecologica, rappresenta la principale minaccia alla salute globale di questo secolo» afferma Roberto De Vogli, Professore associato in Salute globale e Psicologia del potere presso l’Università di Padova, citando anche la prestigiosa rivista The Lancet. Ogni anno, la pubblicazione offre una dettagliata analisi attraverso il Lancet Countdown, che esplora gli effetti del cambiamento climatico sulla salute umana.
Tra gli impatti già documentati, spiccano l’aumento delle malattie infettive come la malaria, i cambiamenti nei tassi di mortalità legati alle ondate di calore e le conseguenze degli eventi climatici estremi, come inondazioni. «Le popolazioni socio-economicamente svantaggiate sono quelle che pagano il prezzo più alto» sottolinea l’esperto. Questa disparità si osserva sia all’interno dei singoli paesi, dove le fasce più vulnerabili subiscono i maggiori danni, sia tra le nazioni, con i paesi meno responsabili delle emissioni di CO2 che sopportano le conseguenze peggiori. «Pensiamo a luoghi come il Bangladesh o l’Africa subsahariana, che vivono una vera e propria ingiustizia climatica».
Sono già documentati l’aumento delle malattie infettive come la malaria, i cambiamenti nei tassi di mortalità legati alle ondate di calore e le conseguenze degli eventi climatici estremi come le inondazioni
A livello politico, la risposta risulta spesso inadeguata: «Eventi come le COP (Conferenza delle parti della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), pur avendo un ruolo di sensibilizzazione, si rivelano più orientati alla comunicazione che all’azione concreta. Continuiamo a seguire un modello di sviluppo basato sul profitto a breve termine, trascurando le necessità di lungo periodo».
Ricerche pubblicate su autorevoli riviste, come i Proceedings of the National Academy of Sciences, evidenziano scenari ancora più allarmanti. Secondo De Vogli, «si parla di un rischio esistenziale per la specie umana. Perfino riviste scientifiche tradizionalmente caute hanno adottato termini come “Climate Endgame” per descrivere le possibili conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico».
Un aspetto spesso trascurato è rappresentato dalle crisi a cascata. «I report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) si sono spesso concentrati sugli eventi estremi, come le ondate di calore o le inondazioni, ma hanno dedicato meno attenzione agli effetti a cascata sulla disponibilità di risorse essenziali come acqua e cibo, o sulle ripercussioni economiche globali. Questi effetti interconnessi potrebbero portare a conseguenze gravissime».
Serve una revisione completa del sistema basato sul profitto, sui mercati e sulla crescita economica infinita, che ha ignorato i limiti ambientali e il capitale naturale
In un recente studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences gli autori hanno introdotto una metafora molto efficace per rappresentare il rischio di un evento catastrofico legato al clima, stimato in una probabilità su 20. «È come salire su un aereo con una probabilità su 20 di cadere. Nessuno lo farebbe, allora perché – si chiedono gli autori dello studio – su quell’aereo ci volete mandare i vostri nipoti e nipoti dei nipoti?». Mandare le generazioni future incontro a questo rischio innesca una sorta di “ingiustizia generazionale”, un senso di tradimento ormai palpabile tra i giovani, come dimostrano molte indagini internazionali.
«Serve un cambiamento radicale, ma anche vigoroso e deciso, nelle politiche climatiche e sanitarie globali. Non possiamo più permetterci di ignorare le ripercussioni a lungo termine delle nostre azioni», ribadisce l’esperto.
Indicazioni scientifiche per un cambio di rotta climatica
Quando si parla di soluzioni alla crisi climatica, spesso gli scienziati e gli attivisti vengono accusati di proporre posizioni troppo rigide o di criticare senza offrire alternative. Tuttavia, secondo De Vogli, questa è una percezione distorta. «Il numero di proposte politiche e di richieste per cambiare il modello di sviluppo economico è enorme. Non si tratta solo di politiche isolate, ma di una revisione completa di un sistema basato sul profitto, sui mercati e sulla crescita economica infinita, che ha ignorato i limiti ambientali e il capitale naturale», afferma.
Le proposte, infatti, sono numerose e provengono da migliaia di scienziati e da varie agenzie governative e non. «Ci sono modelli che dimostrano la possibilità di convertire interamente la produzione energetica in energie rinnovabili in tempi relativamente brevi», spiega l’esperto, citando un report di 14 università che ha analizzato questo scenario. Tuttavia, gli ostacoli principali sono di natura politica ed economica. «Il problema riguarda potere e ricchezza. Pensiamo alle industrie dei combustibili fossili: gas, carbone e petrolio sono i principali responsabili del cambiamento climatico. Convertirle richiederebbe una decisione radicale come la nazionalizzazione, ma ciò è in contrasto con il modello economico neoliberale che promuove deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione».
Le previsioni scientifiche sono state costantemente superate dalla velocità dei cambiamenti climatici
L’esperto sottolinea come le previsioni scientifiche siano state costantemente superate dalla velocità dei cambiamenti climatici. «Il Protocollo di Parigi fissava il limite di 1,5°C come soglia critica, ma questa è già stata superata. Nessuno si aspettava un’accelerazione così rapida. Le temperature oceaniche del 2023 e 2024 hanno ampiamente superato le previsioni, e le notizie dall’Antartide sono incredibili, con il ghiacciaio Thwaites, conosciuto anche come “Doomsday Glacier (ghiacciaio dell’Apocalisse)” che si sta sciogliendo».
L’idea di un cambiamento lineare e graduale è ormai superata: «Molti modelli si basavano sull’anno 2100, ma ora è chiaro che il punto di non ritorno potrebbe arrivare molto prima».
Differenze tra i paesi sviluppati sulle politiche climatiche
Le politiche climatiche non sono uniformi tra i paesi sviluppati, e ci sono differenze significative sia all’interno dell’Unione Europea che tra queste nazioni e gli Stati Uniti. «C’è una grande eterogeneità tra i paesi più ricchi. Ad esempio, i paesi del nord Europa hanno fatto passi avanti giganteschi sul piano delle rinnovabili e hanno adottato politiche che sarebbero state impensabili altrove», osserva l’esperto.
Diverso è il caso degli Stati Uniti, dove l’approccio alle politiche climatiche è stato fortemente influenzato dalla politica interna. «Con l’elezione di Trump, gli Stati Uniti tornano ad avere un leader negazionista climatico. Parliamo di una nazione che è seconda al mondo, dopo la Cina, per la percentuale di emissioni di CO2 e dove alcune forze politiche considerano il cambiamento climatico come una cospirazione di paesi stranieri per indebolire l’economia statunitense», sottolinea. Questo rappresenta non solo un’incapacità di affrontare la crisi climatica, ma anche un’incursione nel regno delle fake news e una distorsione della realtà.
Senza la pace, l’ambientalismo non esiste
La mancanza di una linea comune tra le nazioni sviluppate evidenzia come la risposta globale alla crisi climatica sia frammentata e spesso ostacolata da visioni politiche e ideologiche che ignorano l’urgenza della situazione. «Siamo ben oltre l’incapacità di incorniciare una situazione ecologica in modo realistico; siamo in un contesto dove la realtà stessa viene negata», sottolinea ancora l’esperto. Che, inoltre, richiama l’attenzione sul ruolo devastante dei conflitti geopolitici: «Senza la pace, l’ambientalismo non esiste. In 120 giorni di assalto a Gaza sono state emesse emissioni di CO2 pari a quelle annuali di 26 paesi. E per il sabotaggio del gasdotto Nord Stream si stima che siano state rilasciate nell’arco di sei giorni oltre 115.000 tonnellate di gas naturale (CH4), contribuendo a emissioni di gas serra equivalenti a un terzo delle emissioni annuali totali di CO2 della Danimarca».
Questi dati dimostrano come il problema non possa essere risolto solo a livello individuale. «Il comportamento del singolo va apprezzato e riconosciuto, ma dobbiamo anche confrontarci con una realtà molto più pervasiva. Non è a livello di singolo individuo che si riesce a incidere così tanto», conclude De Vogli.
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