«Siamo qui per una prima risposta necessaria alla decisione di bloccare gli impianti che Glencore ha assunto unilateralmente, senza comunicarci, come era doveroso fare, prima di spegnere l’attività della linea zinco anticipatamente rispetto a quanto avevamo insieme concordato», ha scandito bellicoso il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ieri mattina partecipando all’assemblea organizzata in fabbrica dalla Rsu della Portovesme srl (lo stabilimento sardo di Glencore con 673 dipendenti diretti, 520 delle imprese d’appalto e circa 200 dell’indotto).
Insieme con lui c’erano la ministra per il lavoro Marina Calderone e la presidente della Regione Sardegna Alessandra Todde.
«Abbiamo già comunicato all’azienda – ha detto Urso – che per noi è uno stop inaccettabile nel merito e nel metodo, perché riteniamo che la linea zinco sia strategica per l’Italia. Siamo in campo per garantire la continuità produttiva, noi ci siamo». Anche perché le produzioni di zinco e piombo rappresentano un pezzo importante «per realizzare il programma nucleare di terza e quarta generazione avanzata».
E Calderone: «Abbiamo la ferma convinzione che ciò che oggi viviamo deve riportarci a un orizzonte lavorativo. Non intendiamo fare sconti a nessuno, il conto che presenteremo sarà molto salato. Non si gioca con i lavoratori, con le famiglie, con il futuro di un territorio che ha già molto pagato per quelle che sono state in passato iniziative imprenditoriali sbagliate».
«In questa situazione non c’è governo e non c’è Regione Sardegna – ha aggiunto Todde – Siamo tutti insieme e abbiamo le carte che dicono delle cose molto precise. Oggi parliamo di come farle cantare queste carte».
Tanti buoni e battaglieri propositi. Ma vaghi. Come Urso voglia garantire la «continuità produttiva» e quale «conto salato» Calderone abbia in animo di presentare a Glencore non è, al momento, dato sapere.
E infatti tutti gli interventi in assemblea degli operai e dei loro delegati sindacali hanno detto chiaro che se la presenza di due ministri e di Todde in fabbrica è un segnale positivo ed importante, ciò che serve davvero, e in tempi stretti, è un piano credibile di rilancio dell’azienda o, in alternativa, un percorso trasparente che porti alla sua cessione ad altri gruppi interessati all’acquisto e a una ripartenza della produzione su basi concrete e concordate.
Il fatto è che su entrambe queste ipotesi grava al momento una nebbia pesante, che rende impossibile capire come, al di là delle bellicose intenzioni esternate ieri mattina, si voglia davvero procedere per dare uno sbocco alla vertenza della Portovesme srl.
Vertenza, tra l’altro, che è soltanto uno dei tasselli di un quadro di crisi industriale che tocca tutto il polo metallurgico del Sulcis-Iglesiente. Un’area in cui un terzo del Pil territoriale arriva ormai dalle pensioni.
Drammatico, poi, il calo demografico. Secondo uno studio dell’Università di Cagliari, il rapporto tra la popolazione con più di 65 anni e quella attiva (15-64 anni), che oggi è intorno al 40 %, nel 2050 supererà il 90%.
Tra il 2022 e il 2023 sono stati persi 1.300 residenti. Il tasso di disoccupazione giovanile è al 36%. Anche per l’istruzione i dati sono negativi: la percentuale di neet (i giovani che non studiano, non lavorano e non si formano) ha raggiunto il 36,6per cento.
E il Sulcis-Iglesiente è la prima provincia italiana, considerando la popolazione residente, che possiede al massimo la terza media.
Alla la cassa integrazione Portovesme srl è arrivata nell’ottobre del 2021, quando Glencore ha annunciato lo stato di crisi, giustificato con l’altro costo dell’energia. Nel 2022 l’azienda ha proposto un piano di riconversione che prevedeva l’avvio di un impianto per la produzione di batterie al litio che ieri è stato rilanciato come soluzione alla vertenza. Anche altre aziende del polo metallurgico sardo sono in crisi.
Gli impianti dell’Eurallumina, di proprietà di un gruppo russo, la Rusal, sono fermi, con 400 lavoratori in cassa integrazione a rotazione. Il gruppo moscovita ha annunciato un piano di ripresa a partire dal 2026, con un investimento di circa 300 milioni, ma chiede che prima vengano sbloccati di asset finanziari dell’azienda congelati dal governo dopo l’intervento armato di Vladimir Putin in Ucraina. Situazione pesante anche alla Sider Alloys, ex Alcoa. Anche qui, impianti fermi e cassa integrazione.
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