I buoni propositi della moda per il 2025

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Gennaio, si sa, è il mese dei buoni propositi. Quella di inaugurare il nuovo anno stilando una lista di buone intenzioni è una tradizione la cui origine sembrerebbe risalire alla civiltà babilonese e che ogni anno, incessantemente, si ripete con puntualità. Propositi vecchi o propositi nuovi, eppure tutti accomunati dal desiderio di un futuro migliore. Archiviato un anno tutt’altro che semplice, la moda potrebbe mai essere esente dal bisogno di immaginare un avvenire più roseo?

D’altronde, è risaputo quanto il 2024 sia stato un anno complesso per la fashion industry e, in particolare, per il segmento del lusso, che deve tentare di riconquistare i 50 milioni di consumatori persi nel corso dell’ultimo anno.

A pesare, oltre a una particolare e complessa condizione geopolitica mondiale, vi sono la fragilità della supply chain, la frenata della Cina e l’innalzamento dei prezzi (secondo il Luxury Goods Worldwide Market Study Altagamma-Bain aumentati del 20% tra il 2021 e il 2023) che si scontra con la contrazione del potere d’acquisto e la perdita di fiducia dei consumatori, che spesso non trovano un riscontro in termini di qualità (e anche di creatività) che giustifichi un tale costo. E questo non può che riversarsi sui fatturati della maison.

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Insomma, il 2024 è stato segnato da una serie di fattori sfavorevoli che hanno impattato negativamente anche sul Made in Italy. La moda italiana, secondo i Fashion Economic Trends diffusi dalla Camera Nazionale della Moda Italiana (Cnmi), chiuderà infatti l’esercizio scendendo sotto i 100 miliardi euro di ricavi. Riallinearsi alle realtà e rispondere alle esigenze dei consumatori, saranno la chiavi per ripartire e raggiungere obiettivi, alcuni nuovi e altri più volte ribaditi, che potrebbero aprire la strada a un nuovo capitolo, si spera più fortunato, per la moda.

Ma quali sono questi buoni propositi?

1. Parola d’ordine “sostenibilità”

Che la svolta green sia uno degli obiettivi più auspicabili non è di certo una novità. Da anni, ormai, si parla dell’impatto che la moda ha sull’ambiente, e le cifre diffuse dal Parlamento Europeo aiutano a concretizzare la portata del fenomeno:

  • Risorse idriche: Ogni anno, la moda utilizza 93 miliardi di metri cubi d’acqua dolce. Per produrre una sola maglietta di cotone, sono necessari oltre 2.700 litri di acqua, l’equivalente di ciò che una persona dovrebbe bere in due anni e mezzo.
  • Gas serra: La fashion industry è responsabile di una quota significativa delle emissioni globali di gas serra, stimata tra l’8% e il 10%. Nel 2020, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE hanno generato in media più di 270 kg di CO₂ pro capite.
  • Rifiuti tessili: Ogni cittadino dell’UE consuma in media 26 chili di prodotti tessili all’anno, mentre la produzione di rifiuti tessili pro capite ammonta a circa 11 chili all’anno.

Per far fronte a tale fenomeno, la Commissione Europea ha varato il Regolamento sull’Ecodesign, entrato ufficialmente in vigore il 18 luglio 2024. La norma mira a garantire che i prodotti siano progettati per essere duraturi, riutilizzabili e riparabili, riducendo così il loro impatto ambientale durante tutto il ciclo di vita. Uno strumento essenziale per raggiungere tale obiettivo è il passaporto digitale, che dovrà accompagnare i prodotti fornendo informazioni dettagliate sulla tracciabilità, la composizione, il riciclo e lo smaltimento.

Oltre alle nuove leggi, l’Europa sta intensificando i controlli sulle aziende dell’ultra fast fashion. Shein e la sua rivale Temu saranno interrogate in questi giorni dai legislatori britannici sulle condizioni di lavoro, nell’ambito di un disegno di legge volto a contrastare la diffusione di modelli di business non sostenibili.

2. Supportare la filiera

La crisi, spesso raccontata attraverso i bilanci delle grandi maison, appare ancora più radicata quando si analizzano i dati negativi provenienti dalla filiera. Il cuore pulsante della moda italiana non gode di buona salute, come dimostrano le numerose chiusure e il crescente ricorso agli ammortizzatori sociali. Solo in Toscana, secondo Cna Federmoda Toscana, nel primo semestre del 2024 hanno abbassato le serrande 304 aziende mentre il numero sale a 1000 se ci spostiamo nelle Marche. Una situazione che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutti i distretti del territorio, e per la quale la Camera della Moda e le associazioni di settore chiedono aiuto al Governo.

«L’appello che abbiamo lanciato all’ultimo Tavolo della Moda è di non lasciare indietro né una singola azienda né un singolo lavoratore. Abbiamo chiesto 80 milioni di euro per la cassa integrazione ordinaria e altre misure, per un totale di 195 milioni», ha dichiarato Carlo Capasa in occasione della presentazione della Milano Fashion Week, in programma dal 17 al 21 gennaio.

3. Recuperare la creatività

Se nel recente passato era il quiet luxury a dominare le passerelle, decretando il successo di brand che da sempre propongono collezioni dai tagli classici, colori neutri e un’eccellente qualità, seguiti a ruota da altri marchi desiderosi di seguire il trend nato nel post-pandemia, oggi il vento sembra essere cambiato. L’omologazione, infatti, potrebbe aver finito per stancare i consumatori, i quali in un periodo caratterizzato dalla contrazione del potere d’acquisto e dalla riduzione delle occasioni di shopping, sono più propensi a cercare qualcosa di nuovo e distintivo. Un’occasione proficua per le maison, che potrebbero sfruttare il fenomeno per guadagnare quote di mercato e profitti.

D’altronde chi non rischia non vince. A dirlo è lo stesso Marco Bizzarri in occasione del talk organizzato da Camera moda fashion trust lo scorso novembre. Chi meglio del top manager, che ha recentemente investito in Elisabetta Franchi e Maccapani con la sua holding Nessifashion, sa quanto scommettere sulla creatività possa essere la mossa vincente. Fu lui infatti, in veste di amministratore delegato di Gucci, carica che ricoprì per otto anni a partire dal 2015, a nominare Alessandro Michele alla guida creativa del marchio di Kering.

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Una scelta che si rivelo assolutamente vincente. «Mi piace l’idea di inaugurare il 2025 con qualcosa di nuovo, con un’apertura alla creatività», ha dichiarato Silvia Venturini Fendi in un’intervista rilasciata a MF Fashion, sottolineando ancora una volta come la creatività possa essere la carta vincente per aprire un nuovo capitolo nella moda.

4. Formare gli artigiani del futuro

Dietro agli show, agli eventi scintillanti e alle patinate campagne pubblicitarie, ci sono mani sapienti, custodi di un savoir-faire artigianale che garantisce la salvaguardia dell’intero sistema. Tra le tante sfide che la moda dovrà affrontare in un futuro non troppo lontano, un posto rilevante è occupato dalla mancanza di quelli che saranno i futuri artigiani del settore. Secondo le stime della Camera della moda, nei prossimi tre anni mancheranno 90 mila addetti ai lavori, di questi circa 40 mila saranno persone che vanno in pensione, mentre il restante sono posti nuovi. Sono circa 9 mila gli addetti che annualmente servono alla filiera italiana, ma le scuole attualmente ne formano solo 2 mila.

Ma come risolvere questo problema? Restituire l’appeal a tali mestieri, raccontare come possano essere fonte di soddisfazione professionale, e personale, è fondamentale. Sono diverse le maison che hanno deciso di lanciare programmi di formazione interni che consentano di educare i futuri professionisti. Tra queste Fendi, Brunello Cucinelli, Tod’s e Celine. Ma anche Valentino e Santoni. Una lista lunga che evidenzia come le griffe siano sempre più intenzionate a formare internamente le nuove leve e a rispondere a un fabbisogno da cui dipende anche il loro futuro.

5. Portare l’inclusività (dimenticata) in passerella

Nel 2022, l’inclusività era al centro del dibattito. Sembrava che l’attenzione alla diversità e la celebrazione di corporature differenti fossero finalmente diventate parte integrante del discorso della moda, dopo anni in cui le passerelle erano dominate esclusivamente da corpi statuari e magrezze per molti irraggiungibili. Eppure ora siamo punto e a capo.

Secondo un report di Vogue Business, analizzando le passerelle invernali dello scorso anno (gennaio e marzo 2024), è emerso che dei 8.800 look presentati in 230 sfilate e presentazioni, solo lo 0,8% era indossato da modelle plus size (taglia 46 e oltre), il 3,7% da modelle di taglia media (42-46), mentre il restante 95,5% riguardava taglie dalla 36 alla 40. In questo scenario il primato (negativo) va a Milano, dove il 99% dei look sono stati presentati da modelle dalla 36 alla 40.

La riflessione su una moda più inclusiva, oltre alle questioni legate alle taglie, si estende anche al tema della disabilità. Nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità stimi che circa un europeo su cinque viva con una forma di disabilità, questa tematica viene spesso ignorata dagli addetti ai lavori, dimenticando che tutti desiderano esprimere il proprio gusto estetico. Tuttavia, arrivano segnali positivi: alcuni brand iniziano a proporre collezioni di moda adattiva, capi progettati per essere indossati con facilità e soddisfare le esigenze delle persone con disabilità. Pioniere in questo senso è stato Tommy Hilfiger, uno dei primi a proporre abiti innovativi, con zip azionabili con una sola mano, bottoni magnetici e cuciture aperte per le protesi.

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