Niger. Una crisi che ridisegna il Sahel

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di Gaia Serena Ferrara

Il colpo di Stato del luglio 2023 che ha destituito il presidente Bazoum, democraticamente eletto solo due anni prima, instaurando a Niamey il regime militare del generale Tchiani, incrina le relazioni dell’occidente con un Paese considerato la chiave di volta della stabilità del Sahel, e fa venire meno il un fondamentale alleato europeo nella lotta all’immigrazione clandestina, nonché storico presidio della presenza francese nell’area.
Giungendo poi al culmine di un processo definito da alcuni analisti di “epidemia autoritaria” cominciato nel 2020 con il primo golpe in Mali, e proseguito con l’abbattimento successivo dei regimi civili di Ciad, Guinea, e Burkina Faso, il colpo di Stato in Niger chiude un ciclo di eventi che conferma la disaffezione nei confronti dell’Europa, e in particolare della Francia, e delle loro politiche fallimentari nel Sahel. Le sue conseguenze dunque potrebbero concretamente ridisegnare i rapporti di forza nella regione.
Nel 2019 il rappresentante speciale dell’Onu per l’Africa e il Sahel, Mohamed Ibn Chambas, pronunciava parole che si sarebbero rivelate profetiche già dall’anno successivo: “Il Sahel è il simbolo delle promesse non mantenute. Gli aiuti sono importanti, ma senza una strategia locale e sostenibile, diventeranno solo un’illusione di stabilità”.
In effetti l’epidemia autoritaria che ha portato alla capitolazione del governo nigerino ha a che fare con l’instabilità endemica della regione, aggravata dagli effetti nefasti di alcune politiche europee e occidentali.
Se, da una parte, lo stesso golpe in Niger è scaturito dalle fratture istituzionali interne fra civili e militari, dall’altra è stato facilitato dalla destabilizzazione causata dal fallimentare approccio securitario che l’Unione Europea e la Francia hanno adottato nei confronti del Paese africano.
Entrambe le parti hanno mostrato tutti i limiti, le ambiguità e le contraddizioni della loro azione in Sahel e soprattutto in Niger, che per decenni è stato il partner chiave nella riduzione dei flussi migratori dall’Africa e che, fino al golpe, rimaneva l’ultimo Stato nel cuore della regione a non aver smantellato il proprio sistema politico-costituzionale.
Nello specifico, ad aver aggravato l’instabilità di un Paese già alle prese con fragili equilibri istituzionali, sono state congiuntamente le conseguenze deleterie della politica migratoria europea sull’economia nazionale, e il lento collasso operativo di Parigi che dallo scorso anno mantiene il suo avamposto principale in Ciad.

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Tensioni istituzionali interne.
A livello interno il Paese era alle prese da decenni con il tentativo di consolidare la propria base democratica gestendo un fragile equilibrio istituzionale. Talmente fragile che lo stesso passaggio di poteri nel 2021 dall’ex presidente Issoufou era stato segnato da un tentativo abortito di golpe, giusto poco prima dell’investitura del suo successore.
Le decisioni del presidente Bazoum, che poco prima del golpe intendeva sostituire il generale Tchiani, hanno dato nuovo impulso alle tensioni fra civili e militari incrinando definitivamente quel precario ordine democratico faticosamente raggiunto dopo il golpe del 2010. Bazoum, dopotutto, proveniva dallo stesso partito del suo predecessore. E, come tale, il suo governo era pur sempre una proiezione/figlio della cooperazione decennale con quegli attori occidentali che, interferendo nelle vicende politico-istituzionali interne, hanno reso il Niger irrimediabilmente dipendente dagli aiuti economici e dall’influenza straniera, contribuendo ad accrescere notevolmente il malcontento e il risentimento popolare.
In tal senso, infatti, il golpe in Niger ha incontrato il favore di una grossa percentuale della popolazione che vede nell’azione della giunta militare la possibilità di risollevare le sorti del Paese rispetto alle pratiche corruttive e collusive tipiche di precedenti governi.

Il golpe come punto di rottura con gli alleati occidentali.
Al netto della lunga tradizione di instabilità che il Niger ha in quanto al susseguirsi di colpi di Stato, in un’ottica più ampia il recente cambio di regime interno a Niamey riflette il radicale peggioramento dei rapporti con l’Unione Europea e la crescente diffidenza nei confronti della presenza francese nella regione, oramai ritenuta più simbolo di ingerenza che di cooperazione. Oltre alle contraddizioni dell’approccio europeo il golpe ha messo definitivamente in luce l’ambiguità e la perdita di credibilità della Francia nelle relazioni con i Paesi africani.
Sotto il primo profilo, basti considerare che una delle prime azioni del regime golpista è stata proprio abolire la legge anti-tratta 36 del 2015, con la quale l’UE ha reso illegale la migrazione in transito dal Paese finendo per strozzare l’economia nigerina che dipendeva dai proventi derivanti dai flussi migratori. La legge 36 pur essendo a tutti gli effetti parte della legislazione nigerina circa le migrazioni, viene adottata da Niamey col sostegno dell’Unione Europea in ragione della crisi migratoria che, proprio nel 2015, raggiunge il suo apice con l’arrivo di più di un milione di rifugiati. Di fronte ai limiti del sistema europeo d’asilo, l’Unione inizia ad attuare una serie di politiche migratorie restrittive sperando di bloccare i flussi sul nascere (cd. esternalizzazione delle frontiere).
In quest’ottica, il Niger viene identificato come il potenziale gendarme delle frontiere europee, in quanto storico Paese di transito. Nello specifico, tramite la legge 36, il Paese si impegna nella riduzione del traffico di migranti in cambio di sostanziosi aiuti economici e finanziari da parte europea.
Tuttavia, questo rapporto di interdipendenza rivela presto che a pagare il prezzo più alto della criminalizzazione della migrazione è proprio il Niger. La cooperazione con l’Europa in materia di immigrazione non sembra tenere conto del fatto che, per un Paese situato nel cuore del Sahel senza sbocchi sul mare e con un’economia molto fragile, la migrazione costituisca una fonte di ricchezza, di guadagno, e quindi una risorsa basilare per il sostentamento della popolazione. Intorno alla regione di Agadez, infatti, si era creato negli anni un commercio fiorente e proficuo intorno agli introiti della migrazione.
Per cui, con la legge 36 che criminalizza la figura stessa del migrante, il Niger rende illegale la sua principale fonte di sussistenza dietro la promessa di un sostegno finanziario esterno che si è rivelato sostanzialmente inadeguato.
Con il golpe la crescente sfiducia nei confronti dell’Unione si è tradotta in una definitiva rottura delle relazioni bilaterali. Gli effetti deleteri della politica migratoria europea sulla tenuta interna del Niger (tra cui l’impoverimento della popolazione e la conseguente crisi umanitaria) hanno infatti esacerbato e alimentato la disaffezione verso un’Europa accusata di fare soltanto i propri interessi. Questi sentimenti sono stati ulteriormente aggravati dalla condanna europea del colpo di Stato, con la conseguente fine del partenariato strategico e l’interruzione del sostegno finanziario e della cooperazione in materia di sicurezza.
La stessa sorte è toccata ai rapporti con Parigi, già incrinati dal doppio golpe in Mali e dalla fine dell’operazione Barkhane nel 2022. Una missione militare, risalente al 2014 (operazione Serval, poi Barkhane) a guida francese con base operativa in Ciad e comprendente i paesi del G5 Sahel, che aveva lo scopo di contrastare il dilagare del terrorismo nella regione. La stabilità, che era il presupposto e lo scopo della missione francese in Africa occidentale, crolla con il primo golpe in Mali e l’azione di Parigi inizia a rivelare tutta la sua inefficacia. Un colpo di Stato dopo l’altro, la Francia viene gradualmente estromessa dalle giunte militari salite al potere negli Stati e vede la propria influenza erodersi. Da decennale centro nevralgico delle dinamiche di cooperazione regionale, Parigi si ritrova costretta a ripensare la sua politica e la sua presenza militare nella regione. Il grosso delle truppe francesi originariamente impegnate nella lotta al terrorismo si trova oggi concentrato in Ciad.
In questa ottica, se la crisi in Mali ha dato nuovo impulso al risentimento africano nei confronti della Francia, il golpe in Niger ha rappresentato un punto decisivo di non ritorno per l’influenza di Parigi e per la credibilità della sua postura strategica in Africa occidentale.
Fino al golpe del 2023, infatti, il Niger era (insieme al Ciad) l’ultimo presidio militare francese nel territorio saheliano, nonché uno dei principali fornitori di uranio nel processo di approvvigionamento energetico di Europa (il secondo dopo il Kazakistan, con il 25,4%, fonte ISPI agosto 2023) e Francia (30%).
In più, l’intransigenza dimostrata dall’Occidente e da Parigi nella gestione complessiva dell’ondata autoritaria e nella condanna del golpe in Niger ha contribuito ad esacerbare quei sentimenti antifrancesi responsabili di aver ulteriormente irrigidito la postura del regime golpista nei confronti degli attori occidentali. E’ proprio di qualche mese fa l’annuncio della giunta militare nigerina di voler nazionalizzare l’estrazione di uranio, petrolio e oro nel tentativo di rendere il Paese sempre più indipendente dalle potenze straniere.

Le conseguenze del golpe: le sanzioni ECOWAS e la creazione dell’AES.
La condanna tempestiva del colpo di Stato da parte dell’Unione Europea, di Parigi e dell’ECOWAS/CEDEAO (ossia la Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale) non si è fatta attendere e ha sensibilmente peggiorato la situazione. Dal canto suo, dopotutto, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale ha l’interesse prioritario a ripristinare l’ordine costituzionale interno al Niger in un’ottica generale di stabilità e sicurezza della regione, soprattutto alla luce della destabilizzazione causata dal crollo dei regimi civili nei Paesi limitrofi.
Dall’agosto 2023 al governo di Niamey vengono dunque imposte una serie di sanzioni e misure restrittive quali la chiusura delle frontiere, l’interdizione dei voli commerciali, la sospensione delle transazioni finanziarie, il congelamento degli asset detenuti all’estero e l’interruzione del sostegno finanziario europeo. La rigidità dimostrata dall’ECOWAS si spiega anche in virtù della posizione del nuovo presidente della Comunità Bola Tinubu, (al contempo nuovo presidente della Nigeria) che è particolarmente avverso ai regimi golpisti e vorrebbe, con la sua leadership, deviare rispetto alla tendenza e alla frequenza con cui in Africa si realizzano i colpi di Stato.
La minaccia simultanea di un intervento militare congiunto della CEDEAO e della Francia, finalizzato a reintegrare il presidente, non ha aiutato alla distensione dei rapporti con il regime militare di Tchiani.
Sebbene la Comunità non abbia dato seguito alla minaccia, per evitare di generare un vero e proprio conflitto armato con il rischio di una successiva escalation, la reazione del Niger è stata quella di abbandonare la comunità ECOWAS proponendo la creazione di un patto di mutua difesa a Mali e Burkina Faso, entrambi colpiti dalla condanna politica occidentale e sostenuti militarmente dalla Russia.
La Confederazione degli Stati del Sahel, AES, prende vita nel luglio 2024 come alleanza militare di gruppi ribelli che si va a configurare come potenziale organismo regionale alternativo all’ECOWAS, nonché possibile campo di confronto fra Russia e Usa.
La creazione dell’AES sancisce infatti un punto di svolta per l’influenza russa nel Sahel, spostando l’asse della cooperazione: con l’interruzione dei rapporti diplomatici e di difesa con gli alleati occidentali, i paesi golpisti hanno guardato a Mosca come alla loro migliore occasione di proteggere l’ordine scaturito dai cambi di regime in un’ottica antioccidentale.
Il Niger stesso oggi fa affidamento sulla collaborazione militare e sulla partnership tecnologica con la Russia, e non è l’unico Paese della regione motivato a intensificare le relazioni strategiche con Mosca.
Di fronte a tali rischi, lo scorso febbraio la comunità ECOWAS ha provato a fare marcia indietro, scegliendo di revocare parte delle sanzioni imposte al Niger e riconsiderando la propria postura nei confronti dei paesi golpisti che hanno aderito all’AES. Innanzitutto, perché l’AES rappresenta un’occasione per i militari di consolidare il loro potere in funzione antidemocratica. Secondariamente, perché si farebbe fatica a isolare economicamente i tre Paesi che rimangono comunque parte dell’Unione Monetaria ed Economica dell’Africa Occidentale. E, in terzo luogo, in virtù dell’interdipendenza delle economie dei Paesi del Sahel che potrebbero essere indebolite e penalizzate dall’interdizione delle relazioni con i governi golpisti.

La rinnovata centralità strategica del Ciad e gli scenari futuri.
Ad aver ulteriormente motivato la diffidenza e il risentimento di Niamey nei confronti di Parigi è stato poi il cosiddetto “doppio standard francese”, quella “vocazione democratica a corrente alternata” che spingerebbe la Francia a condannare o sostenere i cambi di regime nella regione sulla base dei propri interessi strategici.
L’Eliseo non ha infatti esitato a condannare e sollecitare sanzioni nel caso dei golpe in Mali e Niger continuando invece a sostenere e difendere il regime golpista del Ciad, Paese con una lunga tradizione di colpi di Stato ma che ormai resta l’ultimo vero alleato francese nel Sahel.
Da qui la rilevanza strategica che il Ciad ha assunto all’indomani del golpe in Niger, ereditandone il ruolo di stabilizzatore regionale, specie in virtù della sua posizione geografica che permetterebbe un rapido intervento negli Stati limitrofi in caso di crisi.
Al netto della crescita dell’influenza di potenze emergenti come Russia e Cina, e dell’incrinarsi di quella apparente convergenza di intenti con l’Africa su cui l’Europa e gli Stati Uniti hanno fatto leva per decenni portando avanti i propri interessi, gli scenari che si aprono nella regione del Sahel sono vari.
Per quanto riguarda il Niger, in primis, c’è la possibilità dell’apertura di una prospettiva africana per un Paese storicamente satellite dell’Europa e che, con la creazione dell’AES e l’avvicinamento a Mali e Burkina Faso, ha iniziato ad allargare gli orizzonti di quei confini tracciati dall’esterno.
In un’ottica più globale, l’eventuale rafforzamento dell’intesa tra gli Stati del Sahel in funzione antioccidentale potrebbe portare a cementare il sostegno reciproco e rinsaldare le giunte militari dei Paesi golpisti.
L’eventuale nascita di un nuovo blocco in materia di cooperazione militare, economica, politica e monetaria è sicuramente una delle ipotesi che più preoccupa la comunità ECOWAS e l’Occidente, poiché rafforzerebbe ancor di più la presenza della Russia negli affari africani, potenza oggi acclamata dalle opinioni pubbliche locali.
In questo senso, risultano quanto mai attuali le parole pronunciate dall’ex presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, che a proposito della presenza occidentale in Africa affermava: “L’Africa deve trovare il proprio cammino, senza interferenze esterne che spesso servono più agli interessi di chi aiuta che a quelli di chi riceve.” Resta da valutare se la crescente influenza di un Paese come la Russia, e di altre potenze comunque autoritarie, sarà di reale beneficio alla regione e ai suoi abitanti.



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