Una questione di vita o di morte

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Claudia Oldani

Illustrazione di Valeria Quaglino


“Se dovessi morire, verresti al mio funerale?” Forse la domanda corretta dovrebbe essere: “Quando morirò, verrai al mio funerale?” Così sembrerebbe più modesta: quel “se” della prima versione dà l’idea che io pensi di non morire mai, di essere immortale, del tipo: “To’, sono morta anche io, pensa te.” Ma non vorrei neanche che quel “quando morirò” faccia intendere che succederà troppo in là nel tempo. La prima opzione sottende qualcosa di imminente, mentre la seconda è meno audace. In effetti non so quale preferisco, penso, mentre mi lavo la faccia.
Mi guardo allo specchio: i capelli sporchi si stanno dividendo a ciocche sulla testa e il pallore del viso è in contrasto con le lentiggini marcate, che normalmente dovrebbero indicare allegria, buona salute, eterna spensieratezza. A dire il vero i miei colori – capelli biondi, occhi chiari – indicano che sono una persona solare e piena di vita. “Palette Summer” direbbero certe stronze. Ma visto che mi piace polemizzare per natura, non sono solare proprio per nulla. Tra l’altro “piena di vita” è un’espressione che mi ha sempre fatto storcere il naso: che cosa significa? Lo squillo del telefono interrompe il flusso dei miei pensieri: è il promemoria dell’appuntamento col mio terapista. Merda, sono in ritardo.

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«Ho letto il suo ultimo articolo» mi dice il mio terapista, non appena mi sono sdraiata sul lettino.
«Ah sì? E cosa ne pensa?» gli chiedo, anche se le domande dovrebbe farle lui, non io. Mi appunto mentalmente di chiedergli settanta euro a fine seduta se continua così.
«Penso che se la sia presa molto con quel cameriere» risponde lui.
Sono una critica gastronomica e il mio articolo recensiva un ristorante di gran moda al momento. A me non era nemmeno troppo dispiaciuto, ma avevo trovato fastidiosissimo il cameriere che era rimasto vicino al mio tavolo per tutto il tempo.
«La sua vita deve essere un inferno» gli dico.
«Perché?»
«Perché non riesce a leggere nulla senza psicanalizzarne l’autore.»
«Non psicanalizzo tutti gli autori. Solo quelli che sono anche miei pazienti.»
“Non mi rompa il cazzo” penso, ma non glielo dico.
«Sono stata dura con quel cameriere perché non ho gradito il servizio: detesto essere osservata mentre mangio.»
Sento che segna qualcosa sul suo blocco. Dico che lo sento perché in effetti non lo vedo: il lettino su cui sono sdraiata guarda verso una finestra. “Il lettino del piantino” lo chiamo io. Invece lui è alle mie spalle che scrive cattiverie su di me.
«Ha fatto altri sogni degni di nota dall’ultima volta che ci siamo visti?» mi chiede.
«Sì, ho sognato mia mamma.»
Ripercorro il sogno: siamo nel salotto di mia madre e guardiamo le fotografie di quando ero piccola. In una lei mi tiene in braccio, è giovanissima e io sono poco più che neonata. Mia madre è dotata di una bellezza straordinaria, sia nella foto da giovane sia oggi, trent’anni dopo, nel suo salotto. Mentre si guarda esclama: “Com’ero magra!” e si mette una mano sulla bocca. “Pensare che mi vedevo grassa” dice, sempre con la mano ferma in viso, come a riprendersi da uno shock.
«E lei cosa fa, mentre sua madre dice così?» mi chiede il terapista.
«Io mi tocco le culotte de cheval, per ricordarmi che sono lì» gli rispondo «ma penso anche che ce le abbia messe un po’ lei.»
Lui scrive ancora qualcosa sul suo blocco e poi mi prescrive i medicinali.

Prima di dormire prendo le medicine. Decido di lanciarmi in un esperimento e prendo dieci milligrammi di fluoxetina in più del dovuto. Un DIY col Prozac: mi sento così sfacciata che stasera potrei usare l’opzione “Se dovessi morire, verresti al mio funerale?” Purtroppo sono da sola e non posso porgere a nessuno il quesito. Così ingollo il tutto e mentre controllo lo stato dell’adipe adiacente alle mie natiche cado nel sonno.
Mi sveglio e realizzo che sono nella merda. Cioè, letteralmente: mi sono cagata addosso. L’effetto di dieci milligrammi in più di antidepressivo non è la morte o l’inappetenza, è la merda. Ora che lo so, sono in effetti più tranquilla.

«Tranquilla in che senso?» mi chiede la settimana dopo il mio terapista.
È allarmato? Sì, è allarmato, gongolo io dal mio lettino.
«Ero curiosa, ora lo so e mi sono levata ogni dubbio» rispondo con ancora qualche traccia della sfacciataggine di quella sera.
«E non c’era un modo migliore di scoprirlo?»
«Lei non dovrebbe usare questo tono.»
«E lei non dovrebbe prendere più psicofarmaci di quanto prescritto. Eppure eccoci qui.»
“Touché” penso, ma non glielo dico. Invece cancello l’appuntamento della settimana successiva. Lui fa quell’espressione che fa sempre quando dico qualcosa che trova deludente, come se gli avessi sferrato un calcio nelle palle ma lo avessi preso appena di striscio. Non dice niente e incassa il colpo metaforico.

Per tornare a casa prendo la metro, indosso la mia faccia da mezzi pubblici. Sul mio vagone sale una ragazza con evidenti segni di tossicodipendenza: è magra all’osso, le braccia rovinate dalle siringhe. Passa per i sedili a chiedere delle monete. Quando arriva al mio, mi guarda in viso ed esclama: «Madonna.»
Cioè, capito, lei a me. Nemmeno si ferma a elemosinare, passa oltre. Prendo il telefono e rifisso l’appuntamento della settimana successiva col terapista. Ora lui starà facendo l’espressione “guarda chi è tornato strisciando” e sono felice di non essere lì a vederlo fare l’irriverente.

«E quale sarebbe la sua faccia da mezzi pubblici?» mi chiede sette giorni dopo il terapista.
«Come se fosse morto un mio caro. Ma che mi stava profondamente sul cazzo» gli rispondo.
«Mmh…» fa lui, e sento che segna qualcosa sul suo blocco.
«Si riferisce a qualcuno in particolare?» aggiunge poi.
«In realtà no» gli rispondo «ma ora che mi ci fa pensare c’era un certo cugino di mio padre che potrebbe fare al caso nostro.»
Gli racconto di quel parente che a ogni comunione, Natale, battesimo e svariati eventi della liturgia cattolica in cui eravamo costretti a incontrarci non poteva fare a meno di notare quanto fossi ingrassata e quanto fosse fica mia madre. L’apice era arrivato al matrimonio di una zia: eravamo seduti allo stesso tavolo, io adolescente e lui già verso i sessanta. Come di consueto, aveva fatto un apprezzamento rivolto all’aspetto di mia madre. Poi aveva commentato: «Chissà quanto sei invidiosa.»
Mi ero stupita: perché sarei dovuta essere invidiosa di mia madre? Io ero fiera della sua bellezza, come se fosse in parte anche mia. Quello che invece cercavo in mia madre non era un’emulazione della sua eccezionalità, era l’accettazione della mia normalità. Poi, quasi mi avesse letto nella mente, lui aveva dato un pizzicotto al mio cuscinetto destro. L’adipe che odiavo perché mia madre lo odiava. Proprio lei che era perfetta non era riuscita a fare una figlia altrettanto perfetta.
«Deve essere stato piuttosto avvilente» commenta il mio terapista e io ho uno slancio di affetto verso di lui. «Che rapporti ha oggi con quest’uomo?»
«Beh, è morto» rispondo io.
«Mi sembrava indossasse la sua faccia da mezzi pubblici» azzarda lui.
Wow, una battuta. Non cancello l’appuntamento successivo.

«Senta una cosa» gli dico la settimana dopo «è meglio dire “Se dovessi morire, verresti al mio funerale” o “Quando morirò, verrai al mio funerale”?»
«Ha spesso dei pensieri di morte?»
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda» gli dico «e non ho detto di avere pensieri di morte. Mi chiedo solo chi verrebbe al mio funerale se dovessi morire, chessò domani.»
«Perché pensa che non verrebbe nessuno?»
«Non ho detto che penso che non verrebbe nessuno.»
«Se una persona va a chiedere in giro chi andrebbe al suo funerale, evidentemente ha paura che non ci vada nessuno.»
«Penso che verrebbero dalle venti alle cinquanta persone» rispondo piccata «se fosse a un orario consono agli impegni di tutti.»
«Mmh» risponde ancora lui. E di nuovo la penna che gratta sul blocco. Poi azzarda: «Quello che mi suggerisce la sua domanda non è una inclinazione al suicidio. Piuttosto lei sta cercando approvazione.»
Schiocco la lingua, non so che dire. Mi lascia lì, mentre l’eco delle sue ultime parole si riversa nella mia testa.

Prendo la metro anche quel giorno. Mentre sono sulla banchina sento il vento che si incanala nella galleria, il suono del treno in arrivo. Penso che potrei buttarmici sotto, così all’improvviso. Avrei modo di verificare se quelle venti-cinquanta persone verrebbero al mio funerale. Mi immagino la scena mentre il mio corpo imperfetto colpisce i vagoni e poi cade sui binari. Pezzi di vulnerabilità scagliati su tutta la banchina, sfracellati dal treno. Ci metterebbero giorni a raccoglierli e a ricomporli. O forse non sprecherebbero tempo a rimetterli insieme, non lo so. Ripenso al cameriere che mi guarda mentre mangio e gli concedo il beneficio del dubbio: magari stava solo facendo il suo lavoro. Dal giorno in cui il cugino stronzo di mio padre aveva fatto quel commento avevo smesso di mangiare per piacere, ma avevo iniziato a farlo per dovere. Nessuno se n’era accorto, nemmeno mia madre, perché il grasso in eccesso era rimasto al suo posto. Ma per me era cambiato tutto. Quello di cui sono sicura ora è che le mie culotte de cheval all’impatto col treno non subirebbero nemmeno un colpo, rimarrebbero integre, piene di vita. Le immagino fibrose, bianche e rosse, perfettamente appoggiate al pavimento, divise solo dalla distanza immaginaria delle anche.



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