
Il made in Italy sbandierato da Giorgia Meloni a favore di telecamere si sta desertificando. Proprio sotto lo sguardo, immobile, del governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia. La produzione industriale a febbraio scende infatti di oltre 2 punti e mezzo percentuali su base annua e dell’uno per cento su quella mensile.
Il calendario ha riservato un doppio piatto indigesto per il governo, che ha spazzato via il sospiro di sollievo tirato dopo la sospensione dei dazi. La retromarcia di Donald Trump scongiura, per il momento, solo il flagello definitivo sull’export.
A costringere a un bagno di realtà Meloni, solitamente dedita a snocciolare presunti record all’insegna di uno storytelling miracolistico, è stato l’Istat. Prima le revisioni al ribasso del Pil nel 2025 (0,6 per cento anziché 1,2 per cento) contenuto nel Documento di finanza pubblica (Dfp), il nuovo Def; poi l’ennesimo tonfo della produzione industriale che cola a picco da oltre due anni. L’industria italiana è finita in un tunnel senza fine da quando è arrivato l’esecutivo di destra.
In mezzo c’è l’ammissione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti: sulle scadenze fissate dal Pnrr serve una dilazione dei tempi sulla realizzazione. «Con qualsiasi mezzo», dice con toni allarmati il numero uno di Via XX Settembre.
La vera ragione è spiegata da Congiuntura Ref, di Ref ricerche, il paper supervisionato da Fedele De Novellis: «Non è un mistero che, almeno nelle intenzioni, si voglia chiedere una proroga di almeno un anno, in modo da evitare un eccessivo affollamento nel 2026, seguito poi da una caduta della spesa che si vuole evitare sia troppo brusca».
La responsabilità di questo accumulo di scadenze last minute va rintracciata nella revisione del Piano voluta dal governo in carica e in particolare dall’ex ministro, Raffaele Fitto, che aveva sollevato le proteste delle opposizioni.
«Eravamo stati etichettati come gufi e cassandre, solo perché avevamo rilevato l’ovvio: se sposti le scadenze degli obiettivi più avanti non risolvi il problema, ma lo sposti solo più avanti», ha ricordato Ubaldo Pagano, capogruppo del Pd in commissione Bilancio alla Camera.
L’unica consolazione per il governo è la tenuta del rapporto deficit/Pil (3,3 per cento nel 2025, 2,8 nel 2026 e 2,6 nel 2027), legata a una sottostima delle entrate in sede di bilancio. «Forse per non farli spendere dalla maggioranza», osservano con un pizzico di malizia dalle opposizioni leggendo i dati.
Due anni di calo
Fatto sta che a febbraio la contrazione della produzione industriale è stata preoccupante, pari al 2,7 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, mentre la diminuzione è stata dello 0,9 per cento in confronto a gennaio. Da qualsiasi angolazione lo si veda, il dato è pessimo: è il 25esimo calo consecutivo.
Sui canali social della presidente del Consiglio, sempre pieni di parole e video, nessun cenno alle contromisure, così come non è partita la batteria di dichiarazioni dei parlamentari di Fratelli d’Italia come avviene a ogni movimento minimamente positivo dell’occupazione.
Le aziende sono strutturalmente in affanno, e in questo caso il governo Meloni non può scaricare le responsabilità sui predecessori. Il tracollo è continuativo e anche con numeri importanti. La tendenza «è già costata troppo alla manifattura italiana, oltre 40 miliardi di mancati ricavi da gennaio 2024 a oggi secondo Prometeia-Intesa San Paolo», ha sottolineato Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil.
L’impatto sul Pil è inevitabile: il dimezzamento delle previsioni, inserite nel Dfp redatto dagli uffici di Giorgetti, rappresenta una conseguenza di questo scenario. Gesmundo ha poi ricordato che è finito «in crisi uno dei tessuti industriali più forti al mondo, desertificando intere filiere produttive e scaricando sulle lavoratrici e sui lavoratori costi e povertà».
Da Ref ricerche, nel paper dedicato all’economia italiana, viene evidenziato un altro aspetto. «La richiesta di ore di cassa integrazione da parte delle imprese è risultata moderatamente crescente.
Tra il 2023 e il 2024 le ore autorizzate di Cig sono complessivamente aumentate del 30 per cento nel settore manifatturiero, a fronte di un incremento del 21 per cento per il totale dell’economia», si legge nel dossier.
Di fronte ai problemi, il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, dispensa interviste e lezioni a cadenza quasi quotidiana, ma resta inchiodato a una difficoltà ormai consolidata.
«La madre di tutte le cause di questa picchiata verso il baratro si chiama Transizione 5.0, forse il più marchiano dei fallimenti del governo», hanno attaccato dal Movimento 5 stelle. «In qualsiasi altro paese il ministro Urso starebbe a casa a fare il nonno», hanno aggiunto i Cinque stelle.
Mistero Pnrr
Il convitato di pietra resta il Pnrr che nell’èra del governo Meloni è diventato, per paradosso, un problema. I tempi dell’attuazione da rispettare dovrebbero scadere il prossimo anno. Ma a palazzo Chigi hanno rilanciato l’ennesima revisione del Piano, questa volta per assegnare risorse alle imprese.
La misura straordinaria era stata pensata come risposta ai dazi. Adesso che c’è stato il dietrofront della Casa Bianca bisogna capire l’orientamento.
L’operazione non si annuncia comunque agevole. Prima il governo Meloni, attraverso il ministro degli Affari europei, Tommaso Foti, deve chiedere all’Ue il via libera per l’ennesimo ritocco al Piano. Anche se, come sottolineato dalle ultime proiezioni dalla Banca d’Italia, «gli investimenti beneficiano delle misure del Piano nazionale di ripresa e resilienza».
Il problema sarà quando il boost sarà finito. Lo spauracchio è un rallentamento ulteriore dell’economia con un governo inerte.
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