La sfilata è un episodio di cultura visuale? Sì, lo è. Può essere un’architettura effimera paradigmatica? Certo. Può darsi che qualcuno abbia dei dubbi a riguardo, ma basta osservare l’evoluzione dei set dei fashion show dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, del come vengono progettati, realizzati e comunicati per capire che siamo di fronte all’espressione di un’industria creativa che riflette anche trasformazioni altre. La sempre crescente velocità delle fasi di produzione non è diversa da quella che tocca le merci di cui riceviamo advert dall’algoritmo, il parossismo mediatico che ruota intorno al prima, durante e post evento è dettato dai tempi delle piattaforme digitali, il non riconoscersi di alcuni marchi nei canoni della sfilata ci ricorda che per innovare bisogna mettere in discussione le regole consolidate. A tutto questo si aggiunge un crescente interesse di pubblico intorno all’oggetto catwalk, alla sua definizione sia a livello teorico che tecnico. Di questo – e molto altro – ho parlato con Livia Grigori e Daniele Ricciardi, fondatrice e fondatore di Atlas of Shows. Una conversazione dove parlare di showspace significa parlare anche di politica.
Come è nato ATLAS OF SHOWS?
Daniele Ricciardi: Atlas of Shows nasce come tesi di Livia per il suo master in architettura al Politecnico di Milano. È un libro-oggetto che spiega i catwalk attraverso tre piani di lettura: storico, iconografico e architettonico. Sono state ridisegnate da noi circa una settantina di sfilate significative dagli anni Cinquanta in poi. A questa parte si affianca il lavoro di analisi costituito da testi critici e contributi di varie figure del settore, dal fashion designer all’accademico che si occupa di fashion studies.
Livia Grigori: Nasce per inclinazione e curiosità personale. Quando è arrivato il momento di concludere il mio percorso di studi ho capito che non volevo lavorare su progetti di architettura permanente, bensì sull’evento sfilata, tema spesso incompreso e stigmatizzato nel mondo dell’architettura. Ci siamo accorti che la bibliografia, per quanto ricca di saggi sulla teoria e storia della moda, poco o nulla aveva sullo spazio della passerella come tale. Daniele mi ha sostenuta fin dall’inizio, portando una visione chiara e strutturata. Con il tempo il progetto si è espanso integrando nuove informazioni ed è approdato in Instagram, diventando una community che include set e sound designer, creative directors, architetti, producers, studenti delle più disparate discipline e appassionati.
Cosa ha significato portare il progetto in Instagram? come gestite l’iper-semplificazione e la riduzione a puro entertainment che possono toccare il lavoro di analisi, corposo se si parla di ridisegno, dei vostri contenuti quando approda sulla piattaforma?
DR: La complessità apparente dei sistemi che ci circondano si è ridotta in superficie, articolandosi però nel background. Questo è evidente anche nel quotidiano: dall’interfaccia del nostro telefono, al modo di gestire il denaro o pagare la spesa, fino al vocabolario del dibattito politico. Persino paragonando i dialoghi di un film anni Cinquanta con altri più recenti si nota una profondità diversa. Non è una questione stilistica, ma economica. Per massimizzare le possibilità di profitto, è necessario incrementare la produzione all’infinito di beni – e contenuti. Tutto va iper-semplificato per essere recepito velocemente e ovviare alla conseguente saturazione di scelte. Partiamo quindi da questo presupposto accettandolo come regola del gioco, anche nel momento in cui dedichiamo dei giorni per creare un disegno, consapevoli che questo verrà fruito in 10, 15 secondi. In sintesi, gli elementi di cui noi parliamo sono tre: la modella che sfila – metonimia del sistema moda -, il pubblico che assiste – lo Zeitgeist, il costume – e il luogo della performance – l’architettura del catwalk. La relazione tra questi è una storia che può essere raccontata con un diverso grado di dettaglio in base al medium: l’immagine, la caption, il reel e, infine, Atlas of Shows inteso come libro, fonte ultima ed esaustiva. Quello che noi pubblichiamo in Instagram è una sua riduzione, da intendersi nell’accezione culinaria: una preparazione densa, più saporita e appetitosa, in piccole dosi.
LG: La soglia dell’attenzione oggi è ridotta a pochi secondi. Su Tik Tok ne hai meno di tre per attirare un utente. Sono tempi compressi in maniera impressionante. Non nego che questo possa apparire stridente con la mole di lavoro che richiede il ridisegno dei catwalk che, tra i nostri post, è il contenuto più impegnativo. Anche come ricerca delle informazioni: quando le risorse di archivio scarseggiano, ci siamo ritrovati solo con una foto, magari sgranata, a contare le teste in prima fila, i passi della modella nei video o a dover integrare con dei sopralluoghi per ipotizzare una dimensione dello showspace credibile.
Come selezionate i catwalk che analizzate in Atlas of Shows? Quali caratteristiche devono avere?
DR: Il progetto nasce come archivio di episodi significativi, ma anche come strumento finalizzato alla costruzione del nuovo. L’obiettivo è contestualizzare i catwalk nel tempo e tracciare paralleli con altri ambiti creativi e culturali. La visione d’insieme serve a identificare i momenti di rottura con i paradigmi esistenti, creando opportunità nuove. Il nostro focus di rado è sul tipo di scenografia in sé, quanto piuttosto sulle trasformazioni della prassi. Quando Sunnei, per esempio, presenta la sua collezione facendo stage diving ricorre a una modalità che, presa da un altro ambito e portata nella sfilata, innesca qualcosa di nuovo.
LG: Noi facciamo un inquadramento storico in cui la linea del tempo include le milestones che hanno cambiato il linguaggio del rituale, delle location o della geografia. Alcune sfilate sono fatte esclusivamente dal luogo scelto. Può sembrare una scelta semplice, in realtà è un’azione strategica. Di Coperni a Disneyland non potevano non parlare, come non potevamo non includere Fendi quando nel 2007 ha sfilato sulla Grande Muraglia.
Personalmente credo che il marchio più interessante nel concepire il catwalk anche come cultura visuale rimanga Prada. Nel panorama attuale come collocate le collaborazioni tra Prada e OMA/AMO? Ci sono altre realtà così game changer?
DR: Prada e Koolhaas sono stati i primi a materializzare il legame tra moda e architettura attraverso un’idea di sfilata che non ruota solo intorno alla collezione, ma diventa un episodio di spazio costruito con i suoi elementi fondativi. Esempio eclatante: Field, Primavera Estate 2012 con le sedute in foam azzurro disposte puntuali, a griglia, su un prato artificiale. Un’idea quasi politica, in cui first e second row vengono atomizzate, annullandone l’esclusiva e importantissima gerarchia. Oggi, vediamo episodi altrettanto rivoluzionari di agenzie che, prima di essere d’architettura, sono multidisciplinari, come Sub. Con le loro sfilate per Balenciaga nel giro di tre anni hanno creato una polarità nuova. Nel Mud Show per la Primavera Estate 2023, i modelli camminavano letteralmente nel fango, sporcandosi i vestiti. Un atto iconico, ma anche icastico perché distrugge l’idea della sfilata di moda come qualcosa di glamour, perfetta ed elegante.
Più in generale, considerando questi primi vent’anni del XXI secolo: se esiste, quale è il set più iconico mai realizzato a vostro avviso?
LG: Di fronte a un settore e un contesto culturale così complessi, trovo sia sempre un po’ riduttivo parlare di una sola sfilata. Detto questo, la prima a cui penso è Plato’s Atlantis di Joseph Bennett per Alexander McQueen nel 2010, con le due telecamere al centro del set che seguivano le modelle in maniera insistente, quasi aggressiva. Si tratta di una delle prime sfilate trasmesse in streaming. Nel finale, Lady Gaga ha presentato Bad Romance in anteprima mondiale. Al di là del fatto che i fan si sono connessi in massa e lo streaming non ha retto, questo gesto ha stravolto l’intero settore perché ha dato la possibilità a migliaia di persone, indistintamente, di vedere la sfilata in digitale senza un invito o l’essere presenti fisicamente sul set. Oggi lo streaming è ovvio, ma non lo era nel 2009 quando Alexander McQueen ebbe questa intuizione con Nick Knight.
DR: Per me è impossibile citarne solo una e proporrei invece una playlist di quattro sfilate diverse tra loro, ma accomunate dallo stesso approccio. La prima è Balenciaga S/S 2020 con il parlamento blu che, oltre a veicolare un sottotesto sociale critico, è un esempio di layout magistrale da parte di Sub. Ancora, il Mud Show per i motivi sopracitati. Le sfilate Primavera Estate 2020 e 2021 di Jacquemus nei campi di lavanda e grano sono geniali perché di una freschezza così diretta da non poter non essere commercialmente perfette, tanto da diventare un riferimento unanimemente apprezzato. Infine, la Primavera Estate 2025 di Diesel con la sua incredibile wasteland di jeans. Come con Balenciaga, è stato creato un landscape strumentale anche a un commento critico. La similitudine tra questi quattro show è la loro immediata chiarezza, tanto nel risultato formale quanto nell’aspetto concettuale.
In questa conversazione citate spesso i recenti staging di Balenciaga. Secondo voi oggi come viene tradotto l’heritage di una maison storica nel suo catwalk?
DR: Il concetto di heritage rientra nell’immagine che il brand vuole dare di sé. Savoir-faire, lusso e identità sono concetti che cambiano in base alla direzione creativa e alle richieste di mercato. Tutti questi aspetti, diventando architettura, sublimano e vengono riassunti nell’idea di esperienza. Una parola inflazionata – ma corretta quando si parla di showspace – che non è solo l’insieme di atmosfera, spazio e matericità del set, ma è soprattutto l’associazione a valori, economici e culturali. Quando Chanel sfila al Grand Palais, Saint Laurent di fronte alla Tour Eiffel o Margiela in una banlieue, vogliono comunicare in maniera inequivocabile degli ideali precisi.
LG: Se la sfilata in sé dura dieci minuti, la sua esperienza inizia in realtà prima. Dalla scelta della location con il suo contesto urbano a quando i guest si avvicinano dalla strada all’ingresso salutando i fan, passando dal rito del photocall per poi prendere posto nello showspace. Fino all’evento del dietro le quinte per celebrities e stampa, dai fiori freschi nel backstage alla grafica dei badge, anche il più piccolo dettaglio costruisce la qualità di questo vissuto.
Pensando con una logica più di sistema del come vengono progettati e realizzati i set per sfilate: quali sono le principali differenze tra le varie città delle Fashion Week, per esempio tra Milano e Parigi?
LG: Paragoniamo Milano e Parigi perché entrambe hanno visto nascere e affermarsi maison vincenti che hanno fatto la storia della moda. Se penso che non ci siano grandi differenze a livello di creatività poiché in entrambe le città le sfilate possono essere ugualmente straordinarie, per chi si occupa del set up sono molto diverse. Parigi è enorme e possiede una quantità diversificata di spazi molto grandi; a partire dagli storici “tendoni bianchi” degli anni Ottanta nella Cour Carrée del Louvre, oggi divenuti box individuali per ciascun brand, posti nei pressi del museo d’Orsay o a les Invalides e allestiti all’interno con la massima libertà per accogliere migliaia di persone. A Milano, al contrario, la varietà di ambienti ampi scarseggia e quando il luogo è bello ed evocativo, magari è piccolo o ci sono limiti d’intervento per ovvie e giuste ragioni, come nei palazzi storici. Parigi è una città che ha sempre creduto e investito nel potere della moda. Basti pensare che appena conclusa la Seconda Guerra mondiale, le grandi maison sono ripartite nella comunicazione con il Théâtre de la Mode. Chi altro l’ha fatto in quegli anni?
DR: Alcune differenze sostanziali derivano dalle tipologie urbane. A New York il setting è quasi sempre all’interno di qualche grattacielo anonimo, quindi con la pianta libera tipica dell’ufficio, paradossalmente a suo modo unica e riconoscibile, ma anche limitante nelle possibilità in alzato. Londra ha una sua peculiarità grazie a edifici storici più identitari.
LG: Cito un’altra sfilata geniale di Alexander McQueen del 1996, Dante, allestita in una chiesa da Simon Costin a Londra. Caroline Evans, critica e teorica della moda, spiega che il motivo era vincolato sia al messaggio della collezione sia al fatto che in quegli anni i marchi emergenti non erano finanziariamente sostenuti e non avevano spazi. Quella chiesa per McQueen era l’unico posto possibile e ci ha costruito intorno una narrazione, da solo.
Come vi piacerebbe evolvesse il vostro Atlas?
DR: Atlas of Shows è sempre più una community. Per noi è stato il tramite per conoscere tanti creativi, professionisti, appassionati. Con alcuni siamo diventati amici. Uno dei motivi per cui l’abbiamo fondato era il desiderio di confrontarci con altri rispetto al desiderio di comprendere i meccanismi del fashion show. Condividere conoscenza e creare relazioni rimane e rimarrà centrale in questo progetto.
LG: Vogliamo continuare a celebrare il lavoro immenso delle case di moda e di chi sta dietro le quinte. Mettere nero su bianco quel che viene creato. La moda è effimera, veloce, procede guidata dall’angoscia di essere sempre uguale a sé stessa. L’Atlas chiede di fermarsi per un istante e ragionare su quanto è stato fatto. Di riflettere sul come intorno alla sfilata, un progetto veloce e complesso, ruoti un mondo di persone per cui quei dieci minuti sono un pezzo di vita professionale.
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