«Fa rabbia che si usi il nome di Ramy nostro figlio non lo avrebbe voluto»

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È ciò che avrebbe desiderato Ramy, dice il padre. Ed è quello che chiede ora la famiglia. «Intendiamo esprimere con chiarezza e fermezza la nostra posizione riguardo agli avvenimenti che hanno seguito la tragica morte del nostro caro Ramy. La perdita di Ramy è per noi un dolore immenso e insopportabile. Il nostro unico desiderio è che la giustizia segua il suo corso senza strumentalizzazioni. Siamo profondamente turbati nell’apprendere che il nome di Ramy venga utilizzato come pretesto per atti di violenza». Alle tre e mezza del pomeriggio Yehia Elgaml, il papà del diciannovenne egiziano morto il 24 novembre a Milano mentre cercava di sfuggire a un inseguimento dei carabinieri, si affaccia all’ingresso del palazzo del quartiere Corvetto dove abita con la moglie e il figlio maggiore Tarek. Per ribadire, ancora una volta, «basta violenze nel nome di Ramy».

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Ciò che è accaduto sabato a Roma, assicura, non ha nulla a che fare con la volontà della famiglia di giungere alla verità. «Condanniamo fermamente ogni forma di violenza e vandalismo che si è verificata nelle manifestazioni delle scorse ore. Crediamo che il ricordo di Ramy debba essere un simbolo di unità, non di divisione o distruzione. Il nostro richiamo è rivolto a tutti coloro che scelgono di onorare la sua memoria: fatelo in modo pacifico e costruttivo, attraverso il dialogo e il rispetto reciproco». Yehia Elgaml, la moglie e il figlio prendono ancora una volta le distanze da chi si appella al ricordo di Ramy come pretesto per atti violenti. «Ci dissociamo da qualsiasi utilizzo politico del nome di nostro figlio. Ramy era un ragazzo pieno di vita, amato dalla sua famiglia e dai suoi amici e non vogliamo che la sua figura venga strumentalizzata per fini che non hanno nulla a che fare con la nostra richiesta di verità e giustizia per cui abbiamo riposto massima fiducia nella magistratura e nelle forze dell’ordine».

Ha visto le immagini degli scontri avvenuti a Roma, signor Elgaml?

«Sì. E sono molto arrabbiato per quello che è accaduto. È sbagliato agire in quel modo evocando Ramy. Il messaggio da parte nostra è chiaro: quando ci sono manifestazioni per Ramy che siano all’insegna della pace, per favore. Solo cortei tranquilli, no alle violenze, perché mio figlio voleva così. Ramy era un ragazzo pacifico. E questa esortazione non è rivolta solo a Milano, ma a tutta Italia, dove gli episodi violenti nel quali si pronuncia il nome di mio figlio sono sempre più frequenti. Volete manifestare in nome della giustizia e della verità per Ramy? Va bene, ma solo in pace».

Nel corteo a San Lorenzo sono stati feriti otto agenti di polizia.

«Queste manifestazioni non devono essere occasione aggressioni contro gli agenti. La polizia garantisce la sicurezza per tutti noi, per tutta la Repubblica italiana. Io ho fiducia nella giustizia, nei magistrati, nelle forze dell’ordine e nel presidente Sergio Mattarella. Viviamo tutti sotto l’ombrello della Repubblica, non solo gli italiani, ma anche gli immigrati e gli stranieri. C’è qualche carabiniere sbagliato, ma gli altri sono bravi. Io ho fiducia nei carabinieri bravi, non in quelli sbagliati. E ai ragazzi dico: non attaccate la polizia, perché difende la sicurezza in tutta Italia. Anche se qualcuno di loro può sbagliare. Per favore ragazzi, viviamo in pace. È quello che piaceva a Ramy».

Suo figlio è diventato un simbolo. Si aspettava questo moto collettivo?

«Probabilmente il motivo è che Ramy era un bravo ragazzo, non ha mai fatto nulla di male. Lavorava. Ha vissuto in Italia ed è morto qui. Gli piaceva molto l’Italia».

Avete pensato a un modo per ricordarlo?

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«Abbiamo chiesto al sindaco Giuseppe Sala e al governatore Attilio Fontana di fare qualcosa nel quartiere in sua memoria. Ci piacerebbe uno spazio intestato a lui nel quale radunare i ragazzi che vivono qui». Accanto a Yehia Elgaml c’è Ismel, amico di Ramy, che dà voce a questo angolo del Corvetto: «La giustizia faccia il suo corso, chiediamo rispetto per la famiglia e che non si cada nelle generalizzazioni. Giudicare non vi rende migliori, piuttosto ascoltateci e dateci una mano».

Claudia Guasco

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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