Musk, Bezos, Zuckerberg: la pace con Trump (o è panico?) e cosa vogliono dall’Europa

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di
Federico Fubini

Il senso delle mosse degli oligarchi del Big Tech appare chiaro. Attaccano l’Unione europea perché vogliono approfittare dal ritorno di Trump per scardinare alcune leggi a loro sfavorevoli, dall’Ai Act al Digital markets Act. Noi italiani da che parte staremo?

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Amava dire Cornelius Varderbilt, uno dei grandi capitalisti americani della seconda metà dell’800: «Cosa m’interessa della legge? Non sono io ad avere il potere?». Lui grazie alle ferrovie e alla navigazione, John D. Rockefeller per il petrolio e i carburanti, John Pierpont Morgan nella finanza e nella siderurgia, Andrew Carnegie nelle ferrovie e nell’acciaio arrivarono a dominare le nuove tecnologie del loro tempo. Li chiamavano i «Robber Barons», i baroni rapinatori, per la spietatezza nell’imporre i loro monopoli a danno di concorrenti, clienti e fornitori. Avrebbe scritto nel 1913 il presidente Woodrow Wilson: “Se un monopolio persiste, siederà sempre alla testa del governo. Non mi aspetto che un monopolio si autolimiti. Se in questo Paese ci sono uomini abbastanza grandi da possedere il governo degli Stati Uniti, lo possiederanno”. L’anno seguente Wilson istituisce la Federal Trade Commission, l’agenzia che avrebbe applicato le leggi antitrust, tagliato le unghie ai Robber Barons e inaugurato un secolo di vitalità del capitalismo e della democrazia americana.

Innovazione e abusi

Ora che Donald Trump torna alla Casa Bianca sospinto dall’uomo più ricco del mondo, mentre gli altri oligopolisti tecnologici di oggi gli rendono omaggio, stiamo tornando indietro di più di un secolo? Ma soprattutto, mi resta un’altra domanda: perché alcuni di questi Robber Barons contemporanei sembrano così ossessionati dall’Europa – al punto da attaccarla di continuo – se non fanno che ricordarci come siamo arretrati e irrilevanti? Non dovrebbero, semplicemente, ignorarci? Vediamo.
Non c’è dubbio che gli uomini più ricchi al mondo siano oggi dei grandi oligopolisti, se non monopolisti. Jeff Bezos con Amazon è primo, secondo o (più di rado) terzo nel mercato internazionale in settori diversi come l’e-commerce, il cloud computing, le spedizioni postali, gli strumenti di assistenza vocale (Alexa), la pubblicità online, l’editoria digitale, gli e-reader, i vettori spaziali e le comunicazioni satellitari, l’entertainment e la produzione audiovisiva. Il libro “The Everything War” di Dana Mattioli, una reporter del “Wall Street Journal”, documenta come Amazon abbia abusato per decenni delle sue dimensioni rubando dati e segreti industriali ai suoi stessi milioni di clienti e fornitori, ottenendo sussidi pubblici potenzialmente per decine di miliardi di dollari e praticando prezzi predatori quando si trattava di costringere dei concorrenti alla resa. Bezos, inoltre, ha contratti pubblici per vari miliardi di dollari.




















































Musk e Zuck

Quanto a Elon Musk, come sappiamo, è un leader di mercato mondiale nelle auto elettriche, nelle tecnologie fotovoltaiche, nelle batterie, nell’industria spaziale e nelle comunicazioni satellitari, nell’intelligenza artificiale e nelle neurotecnologie per studio degli impianti cerebrali di chip, nella pubblicità in rete e nei social media (che gestisce, in perdita, con scopi diversi dal profitto); ha ricevuto sussidi pubblici per almeno sei miliardi di dollari e anche lui naturalmente ha contratti pubblici multimiliardari.
Meta-Facebook di Mark Zuckerberg invece è semplicemente numero uno al mondo nei social media e nei messaggi digitali, oltre che numero due nella pubblicità online e fra i primissimi protagonisti nell’intelligenza artificiale. Proprio in quest’ultimo settore Meta sta apertamente offrendo il suo modello, Llama, alle agenzie della difesa e della sicurezza del governo americano.

Il business dei miliardari

Musk, Bezos e Zuckerberg sono oggi i tre uomini più ricchi al mondo, con un patrimonio in aggregato di poco meno di mille miliardi di dollari. Subito dopo vengono i fondatori di Google-Alphabet Larry Page e Sergey Brin (numeri uno nelle ricerche, nella pubblicità in rete e nei sistemi operativi per smartphone, numeri due nell’intelligenza artificiale e numeri tre nel cloud computing). Alphabet ha un contratto da circa tre miliardi di dollari per la fornitura del servizio cloud al governo americano.
Infine c’è il fondatore di Microsoft, Bill Gates: l’azienda che lui stesso ha guidato è numero uno mondiale nei sistemi operativi per computer e nell’intelligenza artificiale tramite Open AI; è numero due nel cloud computing, oltre che fra i leader nei social media con LinkedIn. Anche Open Ai, di cui Microsoft è azionista di riferimento, ha fra i propri clienti un gran numero di agenzie federali americane e Microsoft stessa ha un grosso contratto di fornitura di servizi cloud al governo degli Stati Uniti.
Nel 2025, i fatturati annui combinati di questi pochi grandi conglomerati arriveranno verosimilmente a 3.500 miliardi di dollari: circa il 3% del prodotto lordo del pianeta Terra e oltre un decimo di quello degli Stati Uniti. Operano in alcuni dei settori più concentrati al mondo, cioè con pochi concorrenti. Eppure, di questi tempi, il ceto degli uomini che hanno in mano queste aziende sembra inquieto. Nessuno di loro in apparenza dipende dal presidente degli Stati Uniti, ma hanno tutti l’aria di essere disperatamente impegnati a costruire buoni rapporti con lui.
Il momento è catturato in una vignetta che rappresenta gli oligarchi tecnologici in ginocchio ai piedi di Trump nell’atto di offrire denaro (vedi sotto). Si riconoscono Bezos, Zuckerberg, il leader di Open AI Sam Altman, Topolino in rappresentanza del colosso dell’entertainment Disney e l’editore del “Los Angeles Times” Patrick Soon-Shiong. Sia lui che Bezos, proprietario del “Washington Post”, sono sospettati di aver impedito ai loro giornali di schierarsi per Kamala Harris durante la recente campagna elettorale. La vignetta era stata disegnata per il “Washington Post” (vedi immagine qui sotto, ndr), che ha rifiutato di pubblicarla; l’autrice si è dimessa.
Cosa sta accadendo? In passato alcuni grandi oligopolisti – soprattutto Zuckerberg e Bezos – avevano avuto rapporti apertamente pessimi con Donald Trump. Oggi stanno tutti cercando di recuperare, rinsaldare o – nel caso di Musk – marcare stretto il presidente. Musk ha preso casa a Mar-a-Lago per non essere mai troppo lontano dall’uomo che lui stesso ha contribuito a far eleggere. Bezos, Sergey Brin, Mark Zuckerberg e il CEO di Apple Tim Cook – con una scelta senza precedenti – si sono precipitati in pubblico pellegrinaggio alla residenza privata di Trump a Mar-a-Lago prima ancora che questi assumesse il potere.

Da Mr. Tesla, a Bezos e Zuckerberg: la     pace con Trump prepara l'assalto all'Europa sul digitale 

I doni al presidente

Meta, Amazon, Google, Microsoft e Sam Altman di Open AI hanno donato un milione ciascuno per l’inaugurazione del presidente, nel pieno di una cascata di offerte dei grandi gruppi finanziari e industriali mai vista prima in queste dimensioni: il fondo per la cerimonia – 170 milioni di dollari – è ormai quasi tre volte più grande di quello che ebbe Joe Biden nel 2021, poco meno del doppio di quello di Trump stesso nel 2017, un multiplo di quelli che ebbe Barack Obama a suo tempo. Denaro dalle Big Tech peraltro sta piovendo anche nei conti privati della famiglia del presidente eletto: in queste settimane Amazon ha deciso di produrre un documentario sulla vita di Melania Trump, versandole 40 milioni di dollari in diritti d’autore. Immaginate se a Roma, a Parigi, a Berlino o a Londra il coniuge del capo del governo ricevesse un bonifico anche cento volte più piccolo da una grande azienda fornitrice dello Stato e da esso regolata: quel leader farebbe fatica a sopravvivere; nell’America di Trump è passato tutto come business as usual.
«Credo sia panico – ha detto l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, repubblicano e populista, degli oligarchi del Big Tech –. Questa gente era tutta anti-Trump e sanno che lui ha grande memoria, un’energia enorme ed è pronto a dare la caccia chiunque rappresenti un problema per lui».
Non dobbiamo essere ipocriti, qui. Non è vero che prima di Trump i rapporti fra politica e affari in America fossero limpidi e privi di conflitti d’interesse. I grandi capitalisti americani hanno sempre finanziato entrambi i partiti. La crisi del 2008 e il crash di Lehman Brothers fu frutto anche della capacità di Wall Street di catturare i decisori di Washington, convincendoli ad allentare le regole e la vigilanza sulla finanza. Nel 1998 Larry Summers, allora segretario al Tesoro del presidente democratico Bill Clinton, azzerò brutalmente l’idea di regolamentare i derivati dicendo senza remore: «Un gruppo di banchieri mi ha visitato in ufficio per dirmi che anche solo l’idea (di regole sui derivati, ndr) crea danni enormi ai loro affari».

Cade il muro americano

Ma quel che sta accadendo oggi è diverso. È un salto qualitativo. Non so dire chi vincerà, alla lunga. Non so se gli oligarchi tecnologici stiano prendendo direttamente possesso del governo – come Musk cerca di fare – oppure si prostrino ai suoi piedi perché temono di esserne smembrati, azzoppati, privati dei contratti o della benevolenza dei regolatori. Vedo però due sviluppi.
Il primo è questo ulteriore e drastico crollo di qualunque residuo diaframma fra potere politico e affari, al punto che nessuna ingerenza e nessun conflitto d’interessi ormai sembrano troppo spudorati. Ma se liberalismo significa proprio questo – separazione dei poteri, anche fra governo e interessi diversi – il segnale che arriva dagli Stati Uniti può innescare, accelerare o legittimare una rivoluzione economica illiberale nel resto del mondo democratico. I segni sono sotto gli occhi di tutti.
L’altra vicenda riguarda però direttamente noi europei. Perché – se ci fate caso – per esempio nella captatio benevolentiae di Mark Zuckerberg verso Trump l’assalto all’Europa e alle sue regole è una costante. Il fondatore di Facebook ha iniziato con il licenziare il presidente degli Affari globali del gruppo Nick Clegg, anglo-olandese, ex vicepremier di Londra e aperto europeista. Poi nell’eliminare il “fact-checking” da Facebook e Instagram negli Stati Uniti, facilitando qualunque manipolazione, Zuckerberg ha paragonato l’Unione europea alla Cina di Xi Jinping. Ha detto: «L’America ha la protezione costituzionale più forte della libertà di espressione. L’Europa ha un numero sempre crescente di leggi che istituzionalizzano la censura, la Cina ha censurato la nostra app. L’unico modo di spingere contro questa tendenza globale è con il sostegno del governo americano».

L’attacco alle leggi Ue

Negli stessi giorni l’Unione europea ha avuto anche il privilegio di essere accostata ad Adolf Hitler in questo scambio fra Musk e Alice Weidel, la leader del partito di estrema destra tedesco Alternative für Deutschland. È successo durante la loro “intervista” sul social di Musk. Traduco:
Weidel: «150 burocrati dell’Unione europea ci stanno seguendo per far rispettare il ridicolo Digital Services Act. Ma non è altro che censura sulla libertà di parola».
Musk: «La libertà di parola è la base della democrazia. Facile dire chi sono i cattivi, sono quelli che vogliono impedirla».
Weidel: «E sai cosa fece come prima cosa Adolf Hitler? Impedì la libertà di parola».
Musk: «Certo. Quelli che sono a favore della censura dovrebbero stare attenti, perché una volta che inizi a istituire la censura, è solo questione di tempo prima che la censura venga usata su di te».
Peraltro anche Giorgia Meloni, di ritorno dall’incontro con Trump a Mar-a-Lago, se l’è presa con la “censura” sui social media. Ha detto: «E’ avvenuto che alcuni miliardari censurassero la gente sulle loro piattaforme. Compreso l’allora presidente degli Stati Uniti, non rieletto, Donald Trump. Ma questa è o no un’ingerenza nella democrazia?». Qui la premier si riferisce a quando Facebook e Twitter (prima di Musk) bandirono Trump quando lui si rifiutò di cancellare i contenuti di fake news con cui metteva in dubbio la legittimità del voto e aizzava la protesta che sfociò nell’assalto a Capitol Hill.

Da che parte staremo?

A questo punto il senso delle mosse degli oligarchi del Big Tech come Musk e Zuckerberg è chiaro. Attaccano l’Unione europea e cercano alleati in Europa stessa perché vogliono approfittare dal ritorno di Trump – e della nuova alleanza fra business e politica in America – per smontare alcune recenti leggi europee: il Digital Services Act, il Digital Markets Act e l’AI Act. Il primo introduce norme precise sulla trasparenza degli algoritmi, la moderazione dei contenuti contro le fake news e i messaggi violenti o illegali. Il secondo limita gli abusi di posizione dominante. Il terzo regola il modo in cui si possono usare i dati nell’allenare l’intelligenza artificiale. Le violazioni possono costare, in aggregato, decine di miliardi in multe alle Big Tech americane: Amazon, Meta, X (ex Twitter) o Google sono potenzialmente molto esposte.
Non voglio sacralizzare quelle leggi, che contengono errori ed eccessi. Il rapporto di Mario Draghi “sulla competitività europea” ha per esempio critiche convincenti sulle difficoltà che alcune misure creano all’uso dei dati e all’innovazione. Ma quelle norme europee per limitare gli abusi delle piattaforme – sul piano dei contenuti e del potere di mercato dei Robber Barons – devono avere aspetti validi: ad esse guardano come un modello Giappone, Corea del Sud, Turchia, Brasile, Cile, Australia e persino la Gran Bretagna di Keir Starmer. È il tipico effetto-Bruxelles nella regolamentazione, che tende a val«ere altrove nel mondo.
Per questo gli attacchi di Musk all’Unione europea e al governo di Londra sono così martellanti. E per questo il confronto sul Big Tech, oltre a quello sui dazi o sulla difesa, è un grande fronte che si sta aprendo fra l’Europa e Trump. Noi italiani con chi staremo?  

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13 gennaio 2025 ( modifica il 13 gennaio 2025 | 08:22)

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