Il nuovo caso di suicidio assistito, il quinto per l’esattezza, crea interrogativi particolarmente rilevanti sul senso e sul significato della professione medica, anche alla luce delle reiterate accuse che dall’Associazione Coscioni vengono rivolte alla classe medica nel suo complesso e in particolare a quanti tra di loro hanno deciso di fare obiezione di coscienza. Marco Cappato arriva a parlare di loro come dei nuovi nemici.
Alla base di questa accusa c’è la storia di Vittoria, una donna trevigiana di 72 anni, affetta da sclerosi multipla da oltre 20 anni, che pur avendo ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie per ricorrere al suicidio assistito, compreso l’indispensabile farmaco fornito dal Servizio sanitario nazionale, non era riuscita a trovare un medico disponibile che, su base volontaria, l’assistesse durante la procedura. Vittoria aveva fatto la sua richiesta il 21 marzo 2024 e il 22 novembre 2024 era arrivata dalla Asl trevigiana la conferma dei requisiti e la fornitura dell’attrezzatura necessaria, ma anche la notifica che non era stato possibile individuare medici disponibili ad assisterla. A questo punto l’Associazione Coscioni, che l’aveva assistita nel corso delle procedure burocratico-legali, come aveva fatto negli altri quattro casi di suicidio assistito, le ha fornito anche l’aiuto medico: il dottor Mario Riccio, anestesista, consigliere generale dell’Associazione, colui che nel 2006 aveva assistito Piergiorgio Welby e 17 anni dopo aveva assistito “Gloria”, paziente oncologica anche lei veneta.
Il suicidio assistito di Vittoria, il quinto in Italia e il secondo in Veneto, è servito a rilanciare da parte dei suoi fautori, sia a livello nazionale che regionale, la richiesta di una legge che renda possibile morire in tempi rapidi a chi lo desidera e abbia i requisiti necessari previsti dalla Consulta con la sentenza 242/2019. Filomena Gallo e Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, subito dopo la morte di Vittoria, hanno dichiarato: “Continuiamo a chiedere l’approvazione di norme nazionali e regionali per garantire tempi rapidi e certi di verifica delle condizioni e di risposta alle persone che chiedono di essere aiutate a morire. Nel frattempo, continueremo a fornire assistenza giudiziaria e medica a chi ce lo chiede affinché il diritto stabilito dalla Corte Costituzionale sia effettivamente rispettato in tutta Italia”.
E sulla stessa linea è intervenuta Elena Ostanel, consigliera regionale del Veneto: “Questo è l’ennesimo caso che ci dimostra quanto la proposta di legge di iniziativa popolare, respinta dal Consiglio regionale a gennaio, sia necessaria. Vittoria ha dovuto rivolgersi anche alla magistratura per poter accedere a quello che è un diritto garantito alla Corte costituzionale e delle regole e modalità chiare servirebbero proprio ad evitare casi come questi”.
Il caso di Vittoria, e la difficoltà a trovare un medico che nei fatti sia favorevole ad assistere un malato mentre si autosomministra il farmaco letale, mostra come sia profondamente radicata nella classe medica una diversa visione della vita e della morte. Non esiste un diritto a morire quando e come si vuole, mentre per il medico esiste un dovere ad assistere un paziente perché viva nel miglior modo possibile la sua vita, senza nessun tipo di accanimento terapeutico, utilizzando tutti gli strumenti di cui dispone, non solo quelli di tipo farmacologico. È un principio deontologico di ippocratica memoria che dà senso alla mission stessa del medico, qualsiasi sia la sua specializzazione o il suo credo.
In questo senso può essere interessante riflettere anche sulla storia di Laura Santi, giornalista perugina affetta da sclerosi multipla, 50 anni a gennaio, che ha ottenuto il via libera dalla Asl per accedere al suicidio assistito, e subito dopo ha affermato: “Ora che sono libera, scelgo di lottare ancora per raccogliere le firme per la legge regionale Liberi Subito in Umbria e in tutte le Regioni”. Sembra paradossale: “Non lo farò, mi dedico a una nuova missione”. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione a morire ha deciso di non usufruirne, per sostenere le battaglie dell’Associazioni Coscioni con l’obiettivo di far approvare una legge sul fine vita. Ma ciò di cui Laura Santi aveva bisogno era di una nuova ragione per vivere, nonostante la sua malattia e le indubbie difficoltà con cui deve misurarsi ogni giorno. È su questo che l’associazione Coscioni dovrebbe riflettere e rivedere una serie di posizioni. La gente ha bisogno di una ragione per vivere. Ma il travisamento con cui Cappato parla dei medici come dei potenziali nemici di chi vorrebbe accedere al suicidio assistito, lascia supporre un probabile attacco al loro diritto di obiezione; ennesima contraddizione per chi si presenta come un paladino dei diritti umani, ma poi seleziona solo quelli che rientrano nel proprio schema mentale.
Al diritto di continuare a proporre una legge finora sistematicamente bocciata a livello regionale, corrisponde il diritto di opporsi a quella stessa legge. Cosa che dovrebbe far riflettere in un momento in cui il Senato sta lavorando proprio sulla legge che affronta il fine vita nella logica del suicidio assistito. Per la maggioranza delle persone non “Servono norme per chi vuole essere aiutato a morire”, ma servono invece norme per chi vuole essere aiutato a vivere.
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