
Sugli investimenti in startup l’Italia resta indietro. Gli incentivi e le politiche a sostegno del settore hanno fatto qualcosa, ma non abbastanza per colmare il gap che divide l’Italia dagli altri grandi paesi europei. I problemi strutturali del Paese restano gli stessi da anni: basso numero di startup davvero innovative e con idee che possono diventare un business serio; pochi fondi di venture capital; troppe difficoltà nelle fasi di disinvestimento dei capitali. È il quadro che emerge da un rapporto di Bankitalia dedicato al settore, ‘The Italian Venture capital market’.
Tanta innovazione dalle università, poca diventa impresa
Rapporto che evidenza un altro problema fondamentale, correlato ma non strutturale alle difficoltà della filiera dell’innovazione. Nonostante l’Italia vanti un’elevata produzione scientifica accademica, la capacità di trasformare la ricerca in iniziative imprenditoriali è debole.
L’attività di creazione di brevetti – utilizzata nel rapporto come indicatore dell’innovazione – risulta nettamente inferiore rispetto a quella di Francia e Germania, se rapportata alla popolazione. Ciò limita la domanda iniziale di finanziamento e ostacola la nascita di nuove startup. In sostanza: l’Italia avrebbe pure un suo potenziale creativo e di innovazione dal basso, ma poco si fa per fare in modo che quelle idee, quella creatività, quella innovazione esca dalle università e diventino impresa.
39 fondi di venture capital, dimensione media 70 milioni
Problemi a monte, problemi a valle. Dove il rapporto sottolinea come l’industria italiana del venture capital sia ancora poco sviluppata. A fine 2023, gli asset gestiti dai fondi VC italiani erano inferiori ai 3 miliardi di euro, con soli 39 gestori attivi e una dimensione media dei fondi pari a 70 milioni di euro, nettamente inferiore rispetto a quella dei principali competitor europei. Anche la partecipazione degli investitori istituzionali è ridotta: i fondi pensione e le compagnie assicurative italiane destinano solo lo 0,01% dei propri asset al VC, contro lo 0,15% della Francia.
Quanto al sostegno pubblico, cominciato nel 2010 e che ha trovato il suo culmine nel 2019 con il lancio di CDP Venture Capital (di fatto il primo e principale fondo di venture capital italiano), Bankitalia ricorda come sia arrivato in ritardo rispetto a Francia e Germania. Ma soprattutto dal lancio di Cdp Venture in poi sia i volumi d’investimento che la dimensione dei fondi mostrano segnali di crescita sostenuta, seguendo un’evoluzione simile a quella già osservata nei Paesi vicini.
Difficoltà nelle exit: il mercato non paga
Un ulteriore ostacolo è rappresentato dalla scarsità di opportunità di exit redditizie per gli investitori, che scoraggia l’impegno iniziale. Le dimensioni ridotte dell’ecosistema innovativo italiano, un mercato borsistico poco profondo e un contesto normativo e fiscale complesso rendono meno attrattive operazioni di M&A e IPO.
I decisori politici sono consapevoli delle criticità. Il rapporto sottolinea l’importanza di rafforzare l’ecosistema del VC come leva per stimolare l’innovazione e la produttività nazionale. Misure legislative come Industria 4.0 e lo Start-up Act hanno già favorito un aumento della spesa privata in R&S e del numero di brevetti. Riforme in corso per semplificare la regolamentazione dei fondi e l’espansione prevista degli asset di CDP Venture Capital fino a 8 miliardi di euro entro il 2028 rappresentano ulteriori passi nella giusta direzione.
Infine, il progresso sull’agenda europea dell’Unione dei mercati dei capitali potrebbe offrire un ulteriore impulso agli investimenti transfrontalieri e migliorare le opportunità di uscita, conclude il rapporto.
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