A Gaza arriva la tregua ma il futuro resta ancora appeso al filo degli estremismi

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Si fa festa nella Striscia di Gaza, mentre si seppelliscono nuovi morti. L’accordo stavolta sembra avere qualche possibilità dopo 15 mesi di bombardamenti, di fame, di aiuti bloccati alla frontiera e 46.700 morti (ma Lancet ne stima 70.000 senza contare le vittime di fame, stenti e mancanza di cure). Finalmente si intravede un cessate il fuoco. Una tregua in cambio degli ostaggi, un processo in tre tappe che potrebbe andare in crisi in ogni momento, tanti i nodi da sciogliere. Ma da quel drammatico 7 ottobre, quando Hamas ha sferrato il suo sanguinoso attacco ad Israele costato 1200 morti, è la prima volta che sembra delinearsi una possibile via d’uscita.

Fragile, molto fragile se già slitta la riunione del governo israeliano che avrebbe dovuto dare il via libera: Netanyahu parla di richieste dell’ultimo minuto da parte di Hamas che vorrebbe indicare i nomi dei detenuti palestinesi da liberare, anche se l’organizzazione smentisce. Già altre volte il premier israeliano ha scaricato sui nemici la responsabilità di un mancato accordo, quando proprio in queste ore l’ultradestra oltranzista del suo governo, per bocca del ministro della sicurezza nazionale Ben Givr, ha ammesso di aver fatto fallire i precedenti tentativi di intesa. Anche adesso Ben Givr giudica l’accordo una resa e minaccia di uscire dalla maggioranza, mentre il ministro delle finanze Smotrich, espressione dei coloni, sostiene la prima fase dell’accordo purché si metta nero su bianco che la guerra poi proseguirà. In ogni caso il Forum delle famiglie degli ostaggi ha messo in chiaro che se anche stavolta finisse in un fallimento riterrebbe responsabile Netanyahu e non altri.

Una tregua fragile e un terreno irto di difficoltà per mettere insieme i pezzi di un possibile percorso di pace. Lo testimoniano anche i 70 palestinesi uccisi nei bombardamenti israeliani dopo l’annuncio del cessate il fuoco che dovrebbe entrare in vigore a mezzogiorno di domenica prossima: raid dell’ultimora che pure non gelano le speranze di Gaza.

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La Casa Bianca e Gaza

Trump comunque esulta e se ne appropria il merito con le sue solite iperboli (“epico”, “storico”), anche se il piano è lo stesso già presentato dall’amministrazione Biden a Netanyahu nel maggio scorso e da lui respinto. Il presidente americano uscente riconosce che c’è stata una collaborazione con lo staff del suo successore: un lavoro di squadra inevitabile visto l’imminente avvicendamento, punto.

Non c’è dubbio però che l’incognita rappresentata dal cambio della guardia alla Casa Bianca e l’ultimatum lanciato da The Donald per ottenere il rilascio degli ostaggi prima del suo insediamento il prossimo 20 gennaio abbia impresso un’accelerazione. Trump ha minacciato di scatenare “l’inferno” su Hamas più di quanto non sia stato finora, ma avrebbe anche esercitato pressioni su Israele, forte della maggiore sintonia con Netanyahu e la destra israeliana. Va ricordato che Trump già nel precedente mandato ha trasferito l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e oggi schiera una nuova amministrazione fortemente filo-israeliana.

Accordo in tre tappe

L’accordo prevede una prima tappa di sei settimane, la tregua prevede la liberazione graduale di 33 ostaggi, donne, minori e anziani, incluse cinque soldate israeliane, che Hamas considera un bottino di guerra pregiato e per le quali ha chiesto il rilascio di 50 prigionieri palestinesi a testa, compresi detenuti condannati per crimini di sangue e terrorismo. Sarà anche consentito il ritorno a casa degli sfollati, ammesso che ne abbiano ancora una.

A partire dal 16° giorno di tregua inizieranno le trattative per la fase due, che dovrebbe prevedere il ritiro di tutte le forze israeliane contestualmente al rilascio degli ostaggi maschi, anche militari, in cambio di altri detenuti palestinesi. Quanti non si dice con precisione, probabilmente intorno ai 1500 (attualmente nelle carceri israeliane sono circa 10.000): Israele comunque non consentirà a chi si è macchiato di crimini di sangue di tornare a Gaza, saranno avviate procedure per il trasferimento in paesi terzi.

Se le cose procedono, procederà anche la tregua. La terza e ultima fase prevede la consegna dei corpi degli ostaggi morti, dovrebbero essere 34, la contropartita sarà l’avvio della fase di ricostruzione.

Foto di Omar Ashtawy/Apa/ROPI / Fotogramma

Molti nodi da sciogliere

Fin qui la teoria. Le certezze, ammesso che ce ne siano, finiscono con la prima fase e anche lì niente è scritto con il fuoco. Resta infatti tutta da vedere la partita del ritiro dell’esercito israeliano. Mentre fonti egiziane parlano di un ritiro già iniziato dal corridoio Philadelphia (tra Egitto e Gaza), questo viene nettamente smentito da parte israeliana. Non è del tutto chiara neanche la parte che riguarda il corridoio di Netzarim, che taglia longitudinalmente la Striscia, né tanto meno la profondità della zona cuscinetto tra Gaza e Israele.

A non essere chiare sono anche le intenzioni di Netanyahu che ha più volte affermato di voler andare avanti fino all’annientamento di Hamas. Per quanto i bombardamenti e gli omicidi mirati abbiano indebolito l’organizzazione palestinese, come ha ricordato il segretario di Stato uscente americano, Antony Blinken, Hamas continua a fare proseliti: tanti ne muoiono tanti ne vengono arruolati.

Il capo del governo israeliano non si è mai impegnato finora per un cessate il fuoco definitivo, non ha voluto mettere nulla di scritto a questo proposito. Anzi, sul proseguimento della tregua almeno finché resteranno aperte le trattative con la parte palestinese ci sono solo garanzie verbali offerte dai mediatori (Usa, Qatar ed Egitto).

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Tanto meno è chiaro, se non ai negoziatori Usa attuali che ne parlano come di un processo delineato, quale futuro per Gaza. Netanyahu è ostile alla soluzione di due popoli due stati, che pure una volta, almeno a parole, sosteneva. Blinken parla di un governo ad interim con la partecipazione dei paesi arabi, per rimettere in piedi un’amministrazione e avviare la ricostruzione, sotto egida Onu e con la possibile presenza di forze di sicurezza (Tajani ha già offerto militari italiani). Ma senza la prospettiva di uno stato palestinese, l’Arabia Saudita e gli altri paesi arabi – che hanno il denaro necessario – hanno già esplicitato che non saranno della partita.

Trump, parlando della tregua come di un suo successo epocale, ha già rilanciato sull’allargamento degli Accordi di Abramo che dovrebbero coinvolgere i sauditi – con i quali la sua famiglia ha forti legami economici – come già accaduto tra Israele e gli Emirati. Ma serve una qualche soluzione per i palestinesi, almeno prospettata sulla carta, per stringere un accordo con Riad. Il prossimo presidente Usa potrebbe aver promesso a Netanyahu una contropartita in Cisgiordania dove gli insediamenti hanno sbrindellato l’ipotesi di una qualche continuità territoriale palestinese (The Donald non ha mai criticato il dilagare dei coloni israeliani). Il suo mediatore Steven Witkoff potrebbe anche aver ipotizzato un via libera a raid israeliani sull’Iran, per bloccare il programma nucleare di Teheran. In ogni caso l’accordo sul cessate il fuoco è la prima pedina per una riorganizzazione dell’assetto del Medio Oriente.

E dopo?

Hamas celebra l’accordo per la tregua come un successo proprio e della resistenza del popolo palestinese. La marea di morti e distruzione (si parla dell’80 per cento delle case distrutte, circa 20.000 bambini uccisi, almeno altrettanti rimasti soli, scuole e ospedali devastati) seguita all’attacco del 7 ottobre passa in secondo piano.

Ragionando sul futuro nessuno dei mediatori vorrebbe vedere ancora Hamas a governare la Striscia e non solo perché sarebbe difficile farlo accettare da parte israeliana. Molto quindi dipenderà da come potrà essere gestita l’eventuale terza fase degli accordi, i mediatori americani parlano di una futura amministrazione affidata ad una Anp “rinnovata”, anche qui da vedere come.

Ma ancora prima di arrivare alla terza fase sarà da vedere anche la distribuzione degli aiuti umanitari, che sono stati strumento di governo per Hamas prima e durante la guerra. Gli aiuti dovrebbero cominciare ad affluire a Gaza nella misura di 600 camion al giorno da sud e 300 da nord allo scoccare del cessate il fuoco, sempre che siano superate le difficoltà logistiche in assenza di infrastrutture e di personale (ong e agenzie Onu sono state decimate dagli attacchi).

Hamas non ha vinto, finora è comunque sopravvissuta. Ma non ha vinto nemmeno Netanyahu:  dopo 15 mesi di terrore, per liberare gli ostaggi il premier israeliano ha avuto bisogno di un negoziato, così come sono stati rilasciati con un negoziato i primi 105 ostaggi nel novembre 2023, mentre si contano sulla punta delle dita quelli liberati manu militari. La violenza indiscriminata usata in questi 15 mesi rimane come una macchia su Israele, Netanyahu ha fatto degli ostaggi un pretesto per operazioni militari ampiamente sconfinate nei crimini di guerra per pregiudicare qualunque possibilità di esistenza di uno stato palestinese. Se la sua strategia vorrà essere la stessa enunciata da Trump, quella della pace attraverso la forza, le prospettive di trasformare la tregua in qualcosa di più continueranno ad avere gambe corte.



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