ora comandano Erdogan e Riad

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È ancora presto per capire se l’accordo tra Israele e Hamas reggerà il passaggio alla seconda fase, che dovrebbe sancire la fine del conflitto e il futuro di Gaza.

Benjamin Netanyahu dice di aver avuto garanzie da Joe Biden, e soprattutto da Donald Trump, che, se Hamas non accettasse le sue richieste in materia di sicurezza, Israele potrebbe riprendere la guerra con il via libera americano.

Con l’ingresso ufficiale alla Casa Bianca di Trump, che quella complicata fase dovrà monitorare, prende, dunque, forma lo scenario, regionale e internazionale, che quello stesso conflitto ha favorito, accelerato, talvolta prodotto.

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L’esito del furore bellico

L’attacco del 7 ottobre ha consentito a Israele di ridisegnare gli equilibri geopolitici dell’area: c’è riuscito meglio su fronti diversi da quello palestinese. Netanyahu si diceva certo che la devastante campagna di Gaza, praticata con furore bellico senza precedenti, avrebbe liquidato il gruppo islamista e, con esso, la questione palestinese: non è andata così.

Hamas, che ha perso forzatamente il sostegno armato dell’Iran – si vedrà se anche quello finanziario del Qatar – dovrà stare fuori dal governo di Gaza, o parteciparvi ufficiosamente con uomini d’area, ma conta di ritrovare slancio in Cisgiordania, dove lo scontro con Israele e i coloni diventerà sempre più acuto.

In riva al Giordano, infatti, l’Anp è poco più che un simulacro, delegittimato dalla lunga subalternità mostrata nei confronti dell’occupante, e la resa dei conti tra i principali campi del panorama palestinese non è lontana.

La carta sunnita

Hamas ha una via obbligata, dopo il duro colpo subito dall’Asse della Resistenza guidato da Teheran: giocarsi la carta sunnita, ricostituendo un’intesa con paesi e forze che hanno una comune matrice ideologica e religiosa, come la Turchia di Erdogan e la Siria post Assad, guidata dall’ex-qaedista Al Sharaa, nella cui coalizione vi sono anche i Fratelli musulmani locali, legati da assonanze ideologiche e religiose a quelli palestinesi.

Sostituendo l’arco sciita che si tendeva da Teheran a Beirut passando per Damasco con quello sunnita che, impugnato ad Ankara, tira una corda che, passando per Aleppo, giunge a Damasco. Ridislocamento che consente anche di “sanare”, agli occhi della parte maggioritaria del mondo della Mezzaluna, la mai troppo gradita commistione religiosa con gli sciiti che solo la solidarietà in funzione antisraeliana con i palestinesi aveva temporaneamente giustificato.

La politica neo ottomana della Turchia, l’ambizione di Erdogan di erigersi a protettore del mondo sunnita in competizione con i sauditi, potrebbe colmare quel vuoto. Anche se la collocazione del paese nella Nato non consente totale libertà di manovra al “sultano” Tayyip.

La fragilità di Teheran

Quanto all’Iran, è conscio della sua fragilità, politica e militare. Teheran ha bisogno di tempo per rafforzarsi, se fosse necessario anche accelerando la corsa verso il nucleare militare, garanzia di deterrenza rispetto allo strapotere armato di Israele: sapendo, però, che così l’esposizione al rischio di un attacco israeliano aumenterebbe esponenzialmente.

Tanto più con Trump nella Sala Ovale. È solo negli interstizi di una stabilità poco stabile che l’Iran può trovare spazio. Per ora assiste al ripiegamento degli alleati, come mostra anche l’elezione alla presidenza della Repubblica di Joseph Aoun in Libano dove, sino a pochi mesi fa, nulla si muoveva senza l’avallo di Hezbollah.

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Dopo la decapitazione politica e militare – Nasrallah non era solo il leader carismatico, ma anche un capo con una visione strategica difficilmente sostituibile – il Partito di Dio è in una situazione difficile. Anch’esso deve riorganizzarsi e attendere che le contraddizioni politiche, confessionali, economiche del Paese dei Cedri tornino a manifestarsi.

Nel frattempo, all’ombra delle falesie di Raouché, il vuoto iraniano è colmato da storiche potenze come Stati Uniti e Francia e dal ritorno dell’Arabia Saudita. Dopo il palese indebolimento degli alleati nella regione, l’imperativo dell’Iran è ritrovare profondità strategica, perduta con la caduta di Assad in Siria, il ridimensionamento in loco dell’alleata Russia, le difficoltà dei proxies in Libano e a Gaza.

Il grande banchetto

Israele resta il principale alleato militare Usa nell’area, ma non sembra avere la stessa centralità di prima. Trump intende rilanciare gli Accordi di Abramo con il sigillo dell’Arabia Saudita. Un’intesa che, nel solco della visione della destra alleata del tecnocapitalismo neoautoritario, guarda non solo alla dimensione di potenza, ma anche ai grandi affari.

I voraci sostenitori del tycoon intendono partecipare al grande banchetto di Vision 2030, il mega progetto di trasformazione dell’Arabia Saudita in potenza non più legata all’estrazione di idrocarburi e avveniristico laboratorio di sperimentazioni tecnologiche, urbanistiche, militari su larga scala, nel quale anche cultura e sport trovano posto come espressione di luccicante soft power desertico.

Trump non è Biden, così come i nuovi repubblicani non sono né i classici conservatori liberali, prevedibili nel ventaglio di scelte, né, tanto meno, i wilsoniani dem, sempre pronti a intervenire in nome delle loro convinzioni “internazionaliste”.

È anche l’aver percepito di non poter più contare su piste già battute che ha spinto l’inquieto Netanyahu a firmare un accordo che non voleva. Data la rilevanza assegnata alle relazioni con i ricchissimi sauditi, per Washington lo speciale rapporto con Israele sarà tale solo se non intacca gli affari del Maga-capitalismo a stelle e strisce.

Per siglare gli Accordi di Abramo, Bin Salman deve, però, incassare formalmente, pena il riemergere del malcontento interno, non solo religioso, il riconoscimento di uno stato palestinese. Ipotesi che né la destra nazionalista Likud né, tanto meno, quella messianica accettano: nemmeno in forme diverse da quelle reclamate da Hamas o dall’Anp.

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Se il conflitto israelo-palestinese si conferma “intrattabile”, lo scenario in cui si articola è, comunque, in mutamento.

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