Il capo economista della banca a Open: «Le nostre imprese si stanno già adattando, Italia e Usa sempre più legate. Ora l’Ue cambi rotta su competitività e ambiente»
L’Europa dovrebbe tremare per l’impatto economico del ritorno al potere di Donald Trump? Sì, se resta ferma. No, se prende le adeguate contromisure e torna a correre. Lo dice a Open alla vigilia dell’Inauguration Day Gregorio De Felice, Chief Economist e Responsabile Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo. Dall’osservatorio della prima banca italiana, De Felice vede bene i rischi che corre l’economia europea, e quella italiana: dazi sull’export, possibile «salasso» in investimenti per la difesa, nuove pressioni inflazionistiche. Ma non si può dire che Italia e Ue non siano stati «avvisate» per tempo. Dunque, non resta che reagire. Anzi, sottolinea non senza orgoglio De Felice alla vigilia di un convegno sul tema promosso da Ispi, Sace e Assolombarda, le imprese italiane lo stanno già facendo. Meglio e più efficacemente di quanto non facciano, ad esempio, le loro concorrenti tedesche. Come a dire: l’allineamento degli astri, nell’Italia della Giorgia Meloni affiatatissima con Trump, non è poi così sfavorevole – anche sul fronte economico. Basta crederci un tantino di più. Certo, è la condizione, su competitività e transizione ecologica l’Ue deve svegliarsi e tornare a consentire investimenti massicci.
Dottor De Felice, lunedì Donald Trump si reinsedia come presidente degli Stati Uniti. C’è da preoccuparsi per l’economia italiana e europea?
«Io ribalterei i termini della questione. È vero che Trump è imprevedibile, ma la sua agenda economica l’ha presentata in campagna elettorale e la conosciamo. È il MAGA, Make America Great Again, declinato sotto vari profili: riduzione della tassazione per gli individui e per le imprese; grande cambiamento nella politica commerciale – i dazi; stop alla transizione verso le rinnovabili. Tradotto: Trump punta a rafforzare la competitività degli Usa. Il tema di maggiore incertezza è piuttosto cosa riuscirà a fare l’Europa di fronte a questo: perché certo potrebbero acutizzarsi, ma i nostri problemi precedono l’arrivo di Trump. A me sembra che l’Europa sia nel complesso piuttosto ferma e non stia facendo abbastanza per reagire alle scelte americane, ossia per difendere la propria competitività».
È il chiodo su cui ha battuto Mario Draghi nel suo rapporto all’Ue, elaborato ben prima della vittoria di Trump.
«Esatto. Quell’approccio ogni tanto torna sui giornali, ma non lo vediamo sufficientemente radicato nell’azione dell’Ue. Tra preparativi, elezioni, formazione e insediamento delle nuove istituzioni, Commissione e Parlamento sono stati fermi un anno. Le pare che possiamo permettercelo?»
Risposta fin troppo scontata.
«Stessimo tutti fermi, ancora ancora. Ma gli altri corrono: e l’America con Trump correrà ancora di più. Quel Make America Great Again ha un significato ben preciso. Quando Trump dice che gli Stati della Nato devono portare le spese militari al 5% del Pil, sta dicendo implicitamente: “Europei, comprate le armi dagli Stati Uniti, non andate da altre parti, altrimenti io vi metto i dazi”».
Una serie di settori tradizionalmente trainanti dell’economia europea è in seria difficoltà, in primis quello dell’automotive. Teme anche lei come dice qualcuno che lo spettro per l’Ue sia quello della desertificazione industriale?
«Io non credo alla desertificazione. Indubbiamente sul settore auto sono stati fatti degli errori, perché se decidi di completare la transizione entro il 2035, devi anche mettere in piedi dei fattori abilitanti che lo permettano. A Bruxelles il mantra è l’indipendenza strategica? Allora non puoi guardare solo alla componente del motore tralasciando tutto il resto. Se metti il mondo delle auto nelle condizioni di essere sempre di più elettrico e poi non produci batterie in Europa, stai creando una nuova dipendenza».
A proposito di ripensamento della transizione ecologica, in America tra dicembre e gennaio quasi tutte le maggiori banche si sono ritirate dalla Net Zero Banking Alliance, iniziativa patrocinata dall’Onu per portare il sistema bancario a contribuire all’azzeramento delle emissioni nette di gas serra entro il 2050. Quel vento nuovo contagerà anche le banche italiane ed europee?
«Queste sono scelte politiche che in America Trump ha già preso, e probabilmente le banche si sono accodate per captatio benevolentiae. L’Europa non è su questa strada, però deve modificare la propria strategia su questo tema. Non basta dire zero emissioni, discutiamo come farlo. I costi di trasformazione per la transizione sono molto alti ed è impensabile che li paghino soltanto le aziende. Un esempio su tutti. Oggi la regolamentazione in Europa chiede alle banche di rispettare i criteri ESG (indice di sostenibilità socio-ambientale delle aziende, ndr) nel concedere i prestiti, ma non dà alcun vantaggio concreto nel farlo. Perché non abbassare ad esempio i requisiti patrimoniali per le banche se fanno prestiti ESG compliant? Quello sarebbe un incentivo significativo che le banche potrebbero poi trasmettere ai clienti, ossia alle imprese. Che smetterebbero di vedere così i complessi questionari ESG che oggi devono compilare solo come un ulteriore appesantimento della burocrazia».
Lo Stato invece sembra essere tornato di moda eccome anche tra gli economisti mainstream – lo stesso Draghi lo ha riconosciuto apertamente: per evitare il tracollo, si chiede apertamente una strategia industriale pubblica. Condivide questo cambio di paradigma?
«È compito dello Stato – degli Stati membri e delle istituzioni comuni se parliamo di Europa – di indirizzare e di chiedersi: quali sono i settori su cui vogliamo puntare, e cosa dobbiamo fare per essere più competitivi? Dobbiamo investire in innovazione. Allora non basta Next Generation EU: bisogna fare molto di più a favore dell’innovazione. Come è stato detto più volte, noi abbiamo in Europa tanti brevetti quanti ne hanno gli americani, però Google, Meta, X, Microsoft etc. sono tutte aziende multinazionali americane. E le loro concorrenti non sono europee, sono cinesi. Quindi c’è un rischio di emarginazione dell’Europa dai fattori trainanti del futuro. Senza dimenticare il mega-trend dell’invecchiamento della popolazione, in Europa più rapido che negli Usa: significa prevenzione medica, spese farmaceutiche, long-term care: cose che costano. Paradosso: perfino in questi ambiti l’innovazione – penso ad esempio ai progressi pazzeschi che sta facendo l’AI in campo medico – è guidata dalle aziende americane. Quindi se vogliamo garantire un futuro il mantra dev’essere: investire, investire, investire. Altrimenti dovremo accontentarci della situazione attuale in cui – previsioni 2025 – gli Usa crescono del 2% e l’Europa dello 0,9%».
Investire, investire, investire. Ma come, nel momento in cui torna ad applicarsi il «rigore di Stato» del nuovo Patto di Stabilità e in Italia il debito pubblico ha sfondato quota 3mila miliardi?
«Le due cose possono stare insieme se l’Europa pensa al benessere comune. Ad esempio, come richiesto più volte dal governo italiano, scomputare le spese per la difesa dal calcolo del deficit per i requisiti del Patto di Stabilità. Idem con quelle per l’innovazione. E in più l’Europa può fare progetti comuni finanziati con debito comune. Quello che dobbiamo capire è che non è impossibile! L’Europa – e così l’Italia – ha capacità brevettuali, ha capacità di risparmio, dunque capitali privati, ha un sistema bancario solido. Però bisogna trovare la molla, il sistema per mettere a terra queste potenzialità, senza buttare all’aria il nuovo Patto».
A queste condizioni, lei dice, pure l’Italia può farcela.
«Certo, al momento altri sono ben più in difficoltà di noi. La Francia, uno dei Paesi grandi sostenitori della riforma del Patto, non ha ancora mandato il piano di medio-lungo termine sulla sostenibilità del proprio debito. La Germania è ferma in attesa delle elezioni del 23 febbraio, con il rischio che il secondo partito del Paese diventi l’Afd – quella sì davvero di estrema destra: contro l’immigrazione, contro l’Europa. Tutto ciò mentre il sistema industriale tedesco è in difficoltà: le grandi aziende puntano ancora molto sulla delocalizzazione, mentre le piccole e medie chiudono o vengono vendute perché i figli dei proprietari ormai anziani non hanno alcun interesse a continuare».
Sta dicendo che il sistema industriale italiano è più pronto all’era Trump?
«Abbiamo notevoli punti di forza. L’industria italiana riesce a esportare il 50% di quanto produce, il nostro avanzo commerciale al netto dei prodotti petroliferi è raddoppiato dal 2008 al 2023, da 55 a 110 miliardi di euro, le imprese hanno una struttura finanziaria più robusta e una maggiore redditività. Anche se permane un dualismo tra imprese vincenti, che vanno bene e offrono salari migliori ai propri dipendenti, e imprese in forte difficoltà».
Dove si collocano tipicamente le imprese “vincenti”?
«I settori trainanti per la crescita che noi vediamo nel 2025 sono quelli più noti del Made in Italy: dalla meccanica alla moda, dall’aerospazio sino all’alimentare, che va benissimo e continua ad aumentare le proprie esportazioni, molto proprio verso gli Stati Uniti. Nel complesso gli Usa hanno superato la Francia diventando già il secondo mercato di sbocco per i nostri prodotti dietro la Germania. Se lì continua la stagnazione o recessione può darsi che diventeranno anche il primo mercato. E ora con l’arrivo di Trump, paradossalmente, s’inizia a intravvedere un’ulteriore evoluzione».
Quale?
«L’indagine che facciamo con i nostri gestori sul territorio ci dice che molte imprese stanno ripensando le loro catene globali del valore: tendenzialmente c’è meno Asia e più Paesi vicini. Ma la sorpresa è che ora, anche per evitare i dazi, molti pensano di andare a installare impianti negli Stati Uniti, aprire lì filiali commerciali o intere filiere produttive. Se prima c’era stata la discontinuità della pandemia, i colli di bottiglia per avere i chip dall’Asia, poi quella dettata dalla guerra russo-ucraina, ora va tenuto conto del cambio di approccio Usa. Il mondo non è mai fermo, tanto meno lo è l’impresa. Ma quelle discontinuità hanno penalizzato più le imprese tedesche di quelle italiane. Proprio perché non guida un colosso da 100mila dipendenti, l’imprenditore italiano è molto flessibile. Corre e si muove dove c’è più domanda. Nell’insieme, la più alta diversificazione di prodotto e la più ampia diversificazione di mercati di sbocco ci dà un grande vantaggio: se uno va male riesci facilmente a compensare con un altro».
Risultato dunque: quanto meno sul piano commerciale i rapporti Italia-Usa si vanno rafforzando.
«Esatto, e in questo è indubbio che i buoni rapporti personali e politici tra i due governi possono fornire un ottimo quadro. D’altra parte se fossi il leader degli Stati Uniti oggi con chi potrei parlare in Europa? In Francia con Bayrou? Chissà quanti mesi potrà durare il suo governo. In Germania il governo non c’è ancora. Parlo con Giorgia Meloni per il momento. Poi si vedrà».
Foto copertina: ANSA-EPA/Jim Lo Scalzo | Donald Trump alla presentazione della sua agenda economica in una fabbrica di York, Pennsylvania, 19 agosto 2024
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