Poche ore separano The Donald dalla sua seconda intronizzazione. Il termine è quanto mai desueto, ma assolutamente attagliato all’immagine di quello che, in molti, a torto o a ragione hanno identificato quale uomo dell’anno, che, in buona misura, è stato ad un passo dall’allungare l’elenco dei politici destinati prematuramente a passare a miglior vita.
Non avrà vita (politica) facile visto che ben due terzi dei suoi connazionali ritengono che gli USA siano su un percorso accidentato e che l’economia sia in condizioni, quanto meno, non buone. La fiducia nel potere esecutivo si è ridotta passando dal 40% del 2000 al 20% odierno; del resto, quale politico può dirsi scevro da difetti e, più o meno grandi, colpe?
L’affievolirsi dell’amor patrio fa il paio con una forte polarizzazione del Congresso; non pochi studiosi americani stilano parallelismi tra la Terra del destino manifesto e la Germania di Weimar, probabilmente ignorando cosa fosse, davvero, l’Europa post 1918.
È il solito paradosso: gli USA sono un paese diviso, percepito in declino, eppure rimangono la compagine statuale egemonica più potente e ricca, visto che la forza lavoro continua a crescere e che il sistema decentralizzato permette al settore privato un dinamismo costante. Questo, tuttavia, crea un’isteresi tra centri urbani ricchi e comunità dell’entroterra in costante difficoltà , che alimenta disparità economiche e polarizzazione politica, con buona pace della coesione nazionale. L’interessato distacco alla Monroe e la propensione all’impegno planetario hanno portato Washington ad una ad una spirale in cui, pur in carenza di risorse, i conflitti sono divampati.
Il ritorno di Trump, specie se comparato con il più pensoso, riflessivo e sfortunato Carter scomparso proprio nelle ultime settimane, ha del clamoroso, viste le modalità con cui lasciò la carica presidenziale, colpito da un ostracismo post assalto al Campidoglio; quasi impensabile anche solo immaginare la sequela di decreti presidenziali che verranno licenziati nelle prossime settimane. Del resto questo sarà un anno intenso e politicamente breve, visto l’insediamento trumpiano e le elezioni tedesche di febbraio, eventi destinati ad incidere sull’evoluzione internazionale.
Inevitabile pensare che il ritorno di Trump sia animato da un forte desiderio di rivalsa: solo contemplare i ritratti ufficiali del presidente lo fa immaginare, mentre l’Europa, che deve e si ripete DEVE programmare una capacità difensiva maggiore ed autonoma, è sempre meno coesa e decisamente più fragile. Chi presumibilmente sarà più unito sarà invece l’amministrazione americana, non fosse altro perché avrebbe dovuto imparare la lezione. La convinzione che Washington debba intervenire sull’integrazione economica a livello globale per salvaguardare sovranità e ricchezza, fa temere l’inizio di guerre commerciali, accompagnate da disimpegni internazionali, come forse in Ucraina; da riflessioni politiche e di leadership sulla Nato, da cui tuttavia non scomparirà la bandiera a stelle e strisce; da una reprise degli Accordi di Abramo e dall’appoggio a Tel Aviv. In sospeso, gli altri attori geopolitici d’area, come Riyadh.
Sul piano interno, certi i provvedimenti intesi a contenere e controllare immigrazione ed iniziative sull’ambiente. Importante assistere alle iniziative di politica economica e monetaria, con un possibile nuovo inquadramento della Federal Reserve dove il neo eletto presidente intende poter avere maggior possibilità di intervento.
Attenzione alle provocazioni da POTUS, vedi Panama e Groenlandia, da non valutare in via letterale ma per quel che, come messaggi, a Cina e Russia, sostanzialmente valgono o come quello indirizzato al Canada, destinatario di avvisi di ordine economico e daziario. Trump, è ben non dimenticarlo, si fregia dell’insegna dell’America First, ovvero, il perseguimento di sicurezza ed interessi americani destinati a riconquistare ruoli di primo piano negli equilibri geopolitici.
Internamente, per i prossimi 4 anni, ai dem l’incombenza di analizzare il voto nazionale, del perché e come Trump abbia conquistato la base operaia, tradizionalmente legata alle compagini progressiste, forse ora più distanti dal nocciolo di famiglia e lavoro. Quel che i dem non hanno ben inteso è che gli elettori delle classi lavoratrici hanno opinioni sfumate, quasi di centro destra, poste al centro dei grandi temi dell’aborto, dell’assicurazione sanitaria, dell’immigrazione.
Interessante il rapporto tra MAGA The Donald e il grande timoniere Xi, tra il parvenu della politica ed il figlio del drago, forte di un inedito consolidamento di potere, con Taiwan nell’ombra. Il confronto investirà due aspetti: cercare di porre Pechino in una posizione attendista alterandone le capacità di equilibrio attraendola nell’incertezza ma senza esasperarla, tenuto conto che la soluzione pro decoupling è sempre incombente pur a fronte della mancanza di una vera e propria recessione.
La nuova Amministrazione americana, più fattivamente, dovrà concretizzare gli spunti forniti da Biden, per esempio con il QUAD, e comunque portare le iniziative multilaterali a maggior consistenza e proattività anti cinese: se lo si vuole, si potrebbe intendere continuità nella discontinuità . Trump rimane un soggetto politico imprevedibile, se si può usare il termine, agonistico alla scorrettezza, competitivo all’esasperazione. In forma completamente diversa da quella adottata negli ultimi decenni dal main stream, forse, l’eccezionalismo americano si è riscoperto protagonista palesandosi in una forma diversa e più autenticamente yankee, meno ideologica e più concreta.
Vedremo. La partita è tutta da giocare.
Foto:Â official Facebook page for Donald J. Trump
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