Le avvisaglie c’erano da tempo, ma adesso è chiaro: la nuova guerra in atto – sperando che si concludano davvero le altre! – è quella dell’informazione. Gli eserciti in azione si nascondono nei video e nei post dei social, luoghi in cui sguazzano non certo da ora le egemonie politiche internazionali e il populismo. Ancora per 24 ore, prima del lunedì dell’insediamento di Donald Trump, i… due presidenti americani, il tycoon e il vecchio Biden, si battono a colpi di annunci web su chi può attribuirsi la fine del conflitto in Medio Oriente, mentre il regno di Elon Musk è diventato impero grazie a «X», il megasocial che rappresenta l’icona di tutto ciò che è avvenuto negli ultimi decenni sul fronte della comunicazione ad artem.
Il paradosso è che, in un mondo che legge sempre meno, l’interesse mediatico è invece sempre più sotto i riflettori. E questo fa meditare. Guardiamo agli Usa perché lì accadono molte cose che poi si ripetono anche in Europa e da noi non è diverso, ormai. L’altro giorno gli editorialisti del Washington Post hanno scritto una lettera dal titolo «Non sappiamo più chi siamo», riferendosi alla linea imposta dal giornale pochi giorni prima del trionfo di Trump, quando era ormai chiaro che Kamala Harris non avrebbe vinto. Furono praticamente vietati, o meglio non graditi, gli articoli pro-Kamala. E adesso si va avanti così. Ma questa è la guerra sui giornali di carta. Sul fronte online, si è verificato il dietro-front del patron di Facebook Mark Zuckerberg, giovane, ricco e audace, che vincerebbe la medaglia d’oro del lecchinismo planetario, visto che sta adeguandosi di giorno in giorno al trumpismo: l’ultima sua impresa è il ricevimento da lui pagato per la cerimonia del tycoon, un milione di dollari belli e pronti. Ma questo rientra nelle sue libertà, ci mancherebbe. La vera notizia è invece quello che riguarda la politica di Meta e cioè dei social che usiamo noi: Zuckerberg ha annunciato lo stop alla moderazione dei contenuti, quindi nessun controllo su fake news di Facebook e Instagram. Chiuso il programma di fact checking ossia del controllo su ciò che si scrive; chiuse le graduatorie di lavoro per i disabili; chiuse le politiche femminili aziendali. Questo vuol dire non solo libertà di attacco per i leoni da tastiera, diffusione senza limiti dell’odio social, ma anche e soprattutto libertà di affermare e diffondere qualsiasi falsità. Immaginate un po’ che pacchia per la politica (e non solo).
E TikTok? Anche lì l’altra battaglia. Negli Stati Uniti usano questa app 170 milioni di persone. Un vero esercito di «sudditi», ai quali si aggiungono gli altri milioni di «soldati» del resto del mondo. Ebbene, TikTok minaccia di sospendere le sue attività se l’amministrazione Biden (ultime ore di presidenza a disposizione!) non dovesse fornire rassicurazioni a Apple, Google e altri provider. Infatti la Corte Suprema americana ha confermato la legge che mette al bando TikTok nel caso non sia venduta, ma Donald ha annunciato che deciderà lui, cosa che a Biden non dispiace, visto che la patata bollente passa al successore. Per capire le dimensioni del fenomeno, a parlare del problema con Trump è stato il presidente cinese Xi Jinping. Probabilmente, la decisione finale sulla vendita slitterà ancora, anche perché – guarda caso – si affaccia all’orizzonte dell’acquisto Elon Musk: cosa assurda, perché se comprasse lui TikTok, avrebbe in mano una concentrazione di media che lo renderebbe imperatore di cieli e terre più di quanto non lo sia già.
Insomma, se noi in una giornata media di pioggia, scarichiamo venti-trenta video dai social, ci ridiamo su, li condividiamo, ci addormentiamo cullati dall’enorme mole di idiozie che accompagnano ogni singolo byte, c’è chi veglia con sorriso sardonico sulla nostra idiozia, macinando miliardi di dollari. Un’oligarchia di potenti che, non solo rafforza il proprio impero monetario, ma accresce il suo potere politico, visto che ora è tutto lì, una guerra di video e di post che de(forma) il nostro modo pensare. Negli Usa, in Europa, in Italia, ovunque. Noi dormiamo e clicchiamo, loro agiscono, trasformandoci nelle nuove vittime di questa nuova guerra dell’informazione.
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