Dal 7 al 17 gennaio il regista iraniano Amir Naderi, appartenente alla generazione degli autori di cinema di Abbas Kiarostami, dalla fine degli anni ’80 in esilio, è stato a Palermo per un workshop con gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, sede Sicilia e per un laboratorio internazionale di Scrittura,
“Tutto ciò che sono, tutto ciò che ho raggiunto come regista, deriva dalla ricca eredità del cinema italiano” ha detto Naderi che è stato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1993 con Manhattan By Numbers, girato negli USA come molti dei suoi film successivi (ha girato una decina di film in patria, tra cui il celebre Il corridore, nel 1985, che l’ha reso famoso, e altrettanti fuori dall’Iran).
“Tra i registi della sua generazione che si sono nutriti del grande cinema italiano del dopoguerra – sottolinea Costanza Quatriglio, regista e direttrice artistica del CSC, sede Sicilia – Amir Naderi lo riconosciamo per l’inquietudine dei personaggi messi alla prova dalla vita e nell’ardore delle storie, sempre a cavallo tra realtà e finzione. Il suo essere iraniano coincide da sempre con il suo essere cineasta nel mondo: ha realizzato film in Iran, in Usa, in Giappone e anche in Italia”
The Hollywood Reporter Roma gli ha rivolto alcune domande.
Il legame tra documentario e finzione è molto stretto all’interno del suo cinema e per certi versi lo è anche in ampie aree del cinema contemporaneo. Può analizzare questo fenomeno?
Il mio è un approccio che cattura la realtà come in un documentario, lo chiamerei forse docudramma. Si cattura la realtà e poi si costruisce una storia intorno a essa. Non una storia complessa, un racconto minimale tramite il quale il pubblico si immerge in cosa sta succedendo. Va detto, però, che questo tipo di film è estremamente difficile da realizzare. Quando scrivi una sceneggiatura a casa, poi vai sul set a girare, gran parte del lavoro del film è già fatto nella scrittura. Ma nel docudramma, tutto cambia.
In che modo girare un film di questo tipo differisce dalle riprese e la realizzazione di un film tradizionale?
Il processo di realizzazione è completamente diverso: si parte da un’idea, non da una sceneggiatura completa. In questo genere di film devi essere fortunato: la location gioca un ruolo fondamentale. Una buona location può darti ispirazione, può comunicare con te e suggerirti idee. È un lavoro che richiede molta improvvisazione sul momento. E poi è molto importante essere pronti: sia tu, sia la tua camera, sia, soprattutto, il tecnico del suono. Bisogna essere sempre pronti a catturare qualsiasi cosa accada, anche inconsapevolmente, sul set. Anche se in quel momento non sai come utilizzerai ciò che hai ripreso nel film, non importa: se succede qualcosa nella location, in quell’ambiente, devi filmarlo.
Lei ha girato anche un film in Italia, Monte. Qual è stata la sua esperienza?
Girare Monte è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Abbiamo lavorato con una troupe di 75 persone e tre operatori di macchina. All’inizio è stato difficile: essendo professionisti, si chiedevano chi fossi e cosa stessi facendo. Ma dopo una settimana di lavoro insieme, abbiamo trovato un’intesa straordinaria e siamo riusciti a realizzare il film. Trovare la location è stato estremamente difficile, ma alla fine, ho trovato due location principali: unavicino a Trieste, nella zona delle Alpi, e un’altra in un luogo chiamato Dobregen, in Croazia, dove c’è da sempre una comunità do italiani. È un posto dove in inverno si scia, ma in estate il terreno è secco. Ho esplorato l’area per giorni, cercando ciò che avevo in mente. Alla fine, ho trovato la location perfetta. Però, prima di girare, ho detto al mio produttore che volevo costruire un villaggio lì e ho passato settimane a osservare come cambiava la luce durante la giornata: al mattino, a mezzogiorno, nel pomeriggio.
Nel suo cinema, come ha detto, bisogna sempre essere pronti a improvvisare. Qual è stato il momento più sorprendente?
In Water, Wind, Dust, partii con un semplice concetto: un ragazzo torna nella sua città dopo essere stato via per due anni a lavorare per aiutare la sua famiglia. Ma quando torna, non trova più nessuno. Io lo seguo con la camera, e mentre lui cerca i suoi familiari, la mia camera osserva cosa gli accade intorno. Poi, mentre giravo, accadde qualcosa di inaspettato. C’era vento così forte che un giorno giravamo in un luogo, c’era una casa, e, quella stessa, quando tornammo il giorno dopo, non c’era più. Chiesi: “Dov’è la casa?”. Mi risposero: “Il vento, durante la notte, l’ha spostata”. E io pensai: “Questa è un’idea per una scena”. Ed è diventata una scena del film.
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