Autonomia, la Lega tira dritto. FdI e FI: la riforma va migliorata

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Roma, 22 gennaio 2025 – Avanti tutta. La sentenza era arrivata da pochi secondi, e già Luca Zaia suonava la carica sulle agenzie, maiuscole incluse. La Lega martella, chiede di fare le modifiche necessarie “entro l’estate”. A spingere più di tutti sono i veneti che rivendicano il ruolo giocato nella vicenda dal momento che il loro governatore è stato l’unico che ha mandato un legale davanti alla Consulta a difendere le ragioni dell’Autonomia contro il referendum. La Regione preme per avere al più presto le competenze richieste, portando avanti il negoziato con l’esecutivo. Non meno tranchant il padre della riforma, Roberto Calderoli, assicura: “Finalmente posso lavorare in pace, senza più avvoltoi che mi girano sulla testa”.

Il nuovo presidente della Corte costituzionale Giovanni Amoroso (Ansa/Ettore Ferrari)

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I soci di maggioranza, si sa, non condividono affatto la fretta: “Tocca al Parlamento far sì che la riforma possa essere migliorata. Avanti per garantire a tutti gli italiani, dalla Lombardia alla Calabria, stessi diritti”, avverte il leader di Forza Italia, Antonio Tajani. Il partito di Giorgia Meloni, FdI, per comprensibili esigenze diplomatiche è più defilato, ma di correre non ha alcuna voglia. “Con la bocciatura della Corte, riprenderà l’iter dell’Autonomia”, sottolinea il senatore Andrea De Priamo. Ma se fosse solo questione di ostacoli nella maggioranza, probabilmente la Lega riuscirebbe a spuntarla. Il problema insormontabile stavolta non è politico, ma tecnico. Nonostante la tesi opposta del Carroccio, limitarsi ad applicare come se nulla fosse i rilievi contenuti nella sentenza della Consulta di novembre non è possibile. Sono stati eliminati i muri portanti, senza quelli l’edificio non tiene. Ne è convinto il neo-presidente Giovanni Amoroso: “Occorre che il legislatore intervenga e determini i livelli essenziali di prestazione”, dice il giurista nel suo primo intervento dopo l’elezione all’unanimità da parte di una Consulta che aspetta che il Parlamento nomini i 4 giudici mancanti. I Livelli essenziali di prestazione (Lep) che riguardano diritti basilari come la scuola o la salute, spiega ancora “sono il pilastro su cui si regge la legge n.86 del 2024”, ovvero l’Autonomia di Calderoli. Ma questo pilastro “è stato investito dalla pronuncia di incostituzionalità” oltre due mesi fa “e per questo c’è da ricostruire la fase che è a fondamento di tutto l’impianto”. Il Parlamento insomma deve riscrivere quell’articolo 3 sui Lep bombardato dalla Corte.

Lo può fare o direttamente con nuove norme o, come è assai più probabile, con una legge delega che attribuisce al governo la facoltà di disciplinare la materia, dopo aver definito le linee guida generali secondo le indicazioni della Corte. L’esecutivo poi delineerà le norme di dettaglio con uno o più decreti legislativi. Insomma, le probabilità che l’Autonomia arrivi in porto rapidamente sembrano davvero molto basse.

La maggioranza comunque è soddisfattissima per la sentenza. Quel referendum, si sa, sarebbe stato un guaio comunque. Disastroso in caso di sconfitta, ma pesante anche per la campagna elettorale. Averlo evitato è da brindisi. Ha meno da brindare il Pd: scampato il pericolo dell’Autonomia, ora deve fare i conti con i cinque quesiti ammessi dalla Consulta – quattro della Cgil sul lavoro e uno sul dimezzamento dei tempi per la concessione della cittadinanza agli extracomunitari – su cui si voterà in primavera. Il problema su quelli promossi dal sindacato di Maurizio Landini è serio. Una decisione va presa (se ne è parlato ieri mattina in segreteria ) e capita che le leggi di cui si chiede l’abrogazione provengano dal Pd stesso. Elly Schlein non c’era e ha già usato più volte l’argomento per giustificare la sua linea a favore del referendum contro il Jobs Act. Purtroppo se non c’era lei c’era buona parte del gruppo dirigente.

I riformisti scalpitano e dicono che all’atto del voto, non ritireranno le schede sul lavoro. Landini, dopo aver sottolineato che “la battaglia contro l’Autonomia differenziata andrà avanti”, però comincia a bombardare sui suoi quesiti: “Si apre una primavera di voto e di diritti contro leggi balorde per cambiare pagina. Parte la grande campagna per cinque sì”. La leader del Pd non ha alcuna intenzione di incrinare il rapporto con la Cgil che ha ricostruito dopo un gelo che durava proprio dai tempi del varo del Jobs Act taglia corto: “Io li ho firmati e senz’altro non faremo mancare il nostro contributo”.



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