I governi italiani complici dei crimini del “sistema libico”

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Altro che piano Mattei per l’Africa. Il caso Almasry è l’esemplificazione che l’Italia in Libia persegue più che roboanti piani di sviluppo (per lo più fumosi, tranne che nel campo energetico) logiche repressive e tribali. E lo fa anche in maniera assai goffa. Come del resto era prevedibile vista la nostra disastrosa politica nella ex colonia che in questi anni abbiamo perso almeno due volte.

LA PRIMA FU quando nel 2011 venne abbattuto – con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare – il regime di Gheddafi che solo mesi prima, nell’agosto 2010, accoglievamo a Roma come un trionfatore. Il governo Berlusconi, così amico di Gheddafi, era sotto pressione e alla fine lasciò la decisione di intervenire all’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano.

La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano, fu abbandonato al suo destino, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu salvato dall’intervento militare della Turchia di Erdogan che da quell’epoca è il vero “stratega” della Tripolitania e ora, con la caduta di Assad in Siria, rafforza il suo “asse” mediterraneo.

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ADESSO, per la terza volta, l’Italia scivola pesantemente in Libia riconsegnando un criminale ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo appena arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia. Ma non ci siamo limitati a questo: lo abbiamo riportato in patria facendo una figuraccia. Osama al Najem, (nome vero di Almasry), capo delle forze della polizia giudiziaria libica, è stato accolto all’aeroporto internazionale di Mitiga, a Tripoli, come un eroe. Le immagini mostrano il generale scendere da un aereo che appartiene alla flotta di stato italiana.

LE AUTORITÀ ITALIANE non hanno avuto neppure l’accortezza di programmare un volo notturno di rimpatrio per evitare almeno la beffa. A ricevere il generale sulla pista c’era il comandante salafita Abdul Rauf Kara, leader della potente Forza di deterrenza speciale (Rada), un gruppo armato libico attivo “per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata” (ovviamente sulla carta). Diversi video sui social media libici documentano il ritorno trionfale del generale di brigata, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani, tra cui torture fisiche e psicologiche e morti sospette mai chiarite. In questi video la colonna sonora sono gli slogan (a volte indistinguibili) contro l’Italia.

Questa vicenda, di cui ci chiede ragione la Corte penale dell’Aja – costituita proprio a Roma nel 1998 – rivela l’insipienza di una classe politica indifferente alle stesse istituzioni di cui fa parte. Ma tutto ha origine dai rapporti, sempre avvolti da ombre, tra l’Italia e la Libia. Dai tempi di Gheddafi i governi italiani hanno mantenuto relazioni ambigue con Tripoli pur di salvare gli interessi energetici dell’Eni e il gasdotto Greenstream, una sorte di cordone ombelicale tra le due sponde del Mediterraneo. Andreotti e Craxi sono intervenuti più volte per salvare il Colonnello da tentativi di golpe o dai raid americani di Reagan. Gheddafi era diventato persino azionista della Fiat e poi anche di banche italiane. Ancora oggi società e banche italiane (Unicredit, Eni ed Mps) sono socie della Libyan Foreign Bank, la banca offshore specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia. I regimi passano, gli interessi restano.

MA IL COLONNELLO libico era anche il “nostro guardiano” in Africa, il controllore dei flussi migratori e il carceriere dei migranti. Lo stessa cosa l’Italia ha provato a fare dopo la caduta di Gheddafi in un Paese precipitato nella guerra civile e nell’anarchia. E i rapporti si fanno ancora più torbidi perché comincia il “sistema libico”. Abbiamo anche una data di inizio: il 31 marzo 2017, quando a Roma il ministro degli interni del governo Gentiloni, Marco Minniti, firma un accordo con un rappresentante del governo di Tripoli e circa 60 capi delle tribù per contenere i flussi migratori a sud (confine con Algeria, Niger e Ciad), mentre a nord viene insediata la guardia costiera contro gli scafisti, grazie alle motovedette pagate dall’Italia. Un reportage del New York Times dell’epoca mostrò come le operazioni della guardia costiera libica rappresentassero una grave violazione dei diritti umani dei migranti, molti dei quali morirono in mare proprio per colpa della guardia costiera libica. In realtà anche la guardia costiera è coinvolta nel traffico di esseri umani, così come le tribù e vari ministri libici.

Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, il sistema libico consiste in un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Il generale Alsmary fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo è noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, dove ha costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi. È chiaro che il generale è una presenza imbarazzante: in un eventuale processo all’Aja Almasry potrebbe rivelare verità assai scomode e complicità indicibili, mettendo in discussione le politiche migratorie di molti Paesi. Meglio liberarsene anche a costo di una figuraccia.



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