Almasri, la credibilità italiana minata da scelte opache e procedure sbagliate

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Errori procedurali, negligenza ministeriale e decisioni politiche opache sul caso Almasri hanno trasformato un’occasione di giustizia in uno scandalo che evidenzia una preoccupante mancanza di rispetto per le istituzioni internazionali e gli impegni assunti dal nostro paese

La recente decisione della Corte di Appello di Roma di non convalidare l’arresto dell’alto ufficiale libico Najeem Osema Almasri Habish ricercato dalla Corte penale Internazionale (CPI) per crimini di guerra dovrebbe scandalizzarci.

Non tanto per il provvedimento giudiziario, che interpreta precise disposizioni normative, e non ricorre affatto a “cavilli”: la libertà personale è definita dalla Costituzione «inviolabile», con la precisazione che non è ammessa forma alcuna di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Se, come chiarito dalla ordinanza, i «modi» dell’arresto erano errati, bene ha fatto la Corte a disporre la immediata scarcerazione del ricercato.

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E allora un primo scandalo sta nel fatto che la Digos evidentemente ignori la procedura normativa esistente da oltre 10 anni in tema di cooperazione con la corte penale internazionale. Dovrà essere allora il ministro dell’Interno a dover rendere conto della debacle e spiegare perché il ricercato sia stato immediatamente espulso su un aereo di stato, peraltro decollato per garantire al ricercato una fuga sicura dalla giustizia internazionale a procedimento giudiziario ancora in corso.

Ma questo primo scandalo pare peccato veniale rispetto al fatto che il ministro della Giustizia, pur informato dalla procura generale di Roma del vizio procedurale, non abbia voluto porvi riparo, pur avendone avuto tutto il tempo.

Gli obblighi procedurali

L’Italia infatti si è dotata nel 2012 di una legge che disciplina gli obblighi procedurali di cooperazione con la corte penale internazionale, prevedendo una supervisione centralizzata del ministro della Giustizia con successivo controllo giudiziario a tutela contro ogni privazione arbitraria della libertà.

Se, come deciso dalla Corte di appello di Roma, l’arresto su mandato della Corte penale internazionale è invalido se eseguito senza il sollecito del ministro della Giustizia, perché lo stesso non ha attivato la procedura una volta saputo che comunque il ricercato si trovava in Italia (in attesa di convalida dell’arresto)? Nulla avrebbe infatti impedito al ministro di attivare “in corsa” la procedura, così che la procura generale potesse chiedere l’applicazione della misura cautelare alla Corte di Appello.

Che il ministro fosse perfettamente informato della presenza del ricercato sul territorio italiano, seppure su arresto sbagliato della polizia di stato, emerge chiaramente dal parere della procura («Ministro interessato da questo Ufficio in data 20 gennaio, immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, ad oggi – 21 gennaio, ndr – , non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito», testualmente).

E quindi il secondo scaldalo sta nel fatto che all’evidenza il ministro della Giustizia non ha voluto istruire la pratica, rifiutandosi di fatto di cooperare con la giustizia internazionale. A differenza di quanto accaduto nello scambio Sala / Abedini, non si tratta di una facoltà legittima, ma di una violazione evidente e giuridicamente ingiustificabile dell’obbligo di cooperazione.

Di conseguenza, il governo italiano e il suo ministro hanno di fatto nuovamente violato – a pochi giorni dal sorprendente annuncio che l’Italia non avrebbe eseguito l’arresto del premier israeliano Benjamin Netanyahu nonostante il mandato spiccato a novembre sempre dalla Corte penale internazionale  – il diritto internazionale.

Tale rifiuto non solo azzera la credibilità internazionale dell’Italia, ma la espone alla responsabilità internazionale ai sensi del principio consuetudinario di responsabilità degli Stati per atti illeciti.

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Errori procedurali, negligenza ministeriale e decisioni politiche opache hanno trasformato un’occasione di giustizia in uno scandalo che evidenzia una preoccupante mancanza di rispetto per le istituzioni internazionali e gli impegni assunti dal nostro paese. Tali scelte rischiano di isolare l’Italia nel consesso delle nazioni civilizzate, oltre a minare i valori fondanti della nostra democrazia.

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