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per le imprese

 


Dopo il via libera, l’altra sera, delle commissioni Lavoro e Finanze, lunedì approderà in aula alla Camera il disegno di legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Nonostante alcuni emendamenti ne abbiamo circoscritto l’applicazione, il voto positivo che si prospetta a Montecitorio rappresenta di per sé un fatto eccezionale. Dopo quasi 80 anni, infatti, si darebbe una cornice giuridica a quanto auspicato dall’articolo 46 della Costituzione. Ma soprattutto – se la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla Cisl venisse definitivamente approvata – verrebbe impressa una svolta fondamentale alle relazioni tra impresa e lavoro. All’insegna appunto della partecipazione anziché del mero conflitto.
Un risultato, in realtà, niente affatto scontato. Non solo per le questioni più propriamente politiche, per i rapporti tra i partiti sempre “viziati” dalle diverse contingenze, come ha dimostrato l’andamento dei lavori nelle commissioni.

Ma perché i cambiamenti culturali profondi, per quanto “maturi” da tempo, restano sempre difficili da accettare e applicare alla realtà rispetto alla riproposizione di schemi consolidati, di ruoli comodi e precostituiti, a volte di posizioni di rendita.

La proposta originaria su cui la Cisl ha raccolto oltre 400mila firme di lavoratori prevedeva, in estrema sintesi, di promuovere quattro forme di partecipazione: consultiva, gestionale, organizzativa, economica-finanziaria. Non in forza di un’imposizione legislativa, ma sempre sulla spinta della contrattazione, degli accordi pattizi, naturale fondamento della partecipazione. Uniche eccezioni: l’obbligo di inserire un rappresentante dei dipendenti nel Consiglio d’amministrazione delle aziende a partecipazione pubblica, come segno di impegno dello Stato, e il vincolo della consultazione dei sindacati per le scelte strategiche nelle imprese private. Entrambe le previsioni sono state cassate al primo esame in commissione. Su spinta, da un lato, della Ragioneria generale e del Ministero delle Finanze, preoccupati di evitare vincoli ai gruppi pubblici, in vista anche di possibili ulteriori privatizzazioni su cui, verosimilmente, si vogliono “mani libere”. E, dall’altro, di banche e piccole e grandi imprese – di cui si sono fatti portavoce i deputati della Lega – poco disposte a condividere le informazioni strategiche e più ancora a discuterne con i rappresentanti dei lavoratori, oltre quanto già previsto dalle norme europee. Così pure è stata cancellata la possibilità di creare dei trust (sul modello anglosassone) per la gestione comune delle deleghe azionarie dei dipendenti, lasciando solo la possibilità, già oggi esistente, di creare associazioni di scopo.

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Tutti emendamenti e marce indietro della maggioranza, che hanno offerto l’occasione al Pd di parlare di “legge svuotata” e così precostituirsi l’alibi per ritirare l’iniziale sostegno a un progetto su cui non mancano le divisioni interne e a cui la Cgil è contraria.

Il quadro politico, insomma, dopo l’entusiasmo unitario iniziale, si è già fatto molto più complesso e in chiaro-scuro. Ma si vedrà lunedì in Aula. In questa fase, piuttosto, a preoccupare maggiormente è l’atteggiamento delle imprese. Le diverse rappresentanze, infatti, hanno cercato di influire sui lavori parlamentari per minimizzare il cambiamento e orientare il più possibile gli incentivi alla sola partecipazione economica, dove possono ottenere risparmi fiscali rispetto ai premi di risultato. A esplicitare i propri dubbi o, meglio, veri e propri timori è stata in particolare Confindustria. Paventando addirittura che l’offerta/richiesta di partecipazione possa portare a un incremento della conflittualità contrattuale. Un po’ come sostenere che migliori relazioni fra i Paesi e la ricerca della pace possono portare a un incremento delle guerre…

Certo, la rivoluzione della partecipazione non è da tutti. Comporta anzitutto maggiore trasparenza, disponibilità al confronto, pensarsi come comunità di persone che concorrono nei diversi ruoli alla crescita del bene comune, prima ancora che di salari, utili e dividendi. Significa compiere un passo deciso oltre le logiche di contrapposizione del ‘900 e proiettarsi verso un modello economico più evoluto, più “civile”, rispetto al capitalismo d’antan. Sarebbe paradossale, però, se a rimanere indietro nella modernizzazione fossero proprio le imprese che dovrebbero guidare il cambiamento. Sarebbe una drammatica occasione persa se a frenare l’evoluzione dei rapporti tra capitale e lavoro, tra imprese e persone, fosse la convergenza degli opposti “estremismi”: chiusura padronale da una parte, mera conflittualità dall’altra.





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