Rivoluzione Trump: stop al «politicamente corretto» e largo alla nuova politica della Verità

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Per risolvere un problema, bisogna partire dalla verità, non da una menzogna che, se ripetuta all’infinito, comunque non diventerà mai realtà. È come cercare di spegnere un incendio con il carburante che lo ha alimentato: chi ha scatenato il fuoco non può certamente essere colui che ti salverà dalla fiamme. 

Negli ultimi anni, la sinistra italiana ha spesso affrontato la questione dell’immigrazione con una visione idealizzata che, purtroppo, non ha mai fatto i conti con la realtà dei fatti.

Il problema non può essere risolto basandosi su una verità distorta, ripetuta e trasformata in una realtà che non corrisponde alla situazione. È come cercare di risolvere un problema senza affrontare la verità: se continui a dire che l’immigrazione incontrollata è sostenibile senza considerare le difficoltà di integrazione e le risorse limitate, non potrai mai trovare una soluzione. 

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Scrivendo queste parole, non sto certo inventando la ruota o l’acqua calda, ma è necessario sottolinearlo per una minoranza di italiani che, ancora oggi, è ossessionata da un’ideologia che ha spinto il Paese sull’orlo del baratro. È fondamentale richiamare l’attenzione su queste verità evidenti, affinché non si ripetano gli errori che hanno già messo in pericolo la stabilità sociale, economica e politica dell’Italia.

Le politiche di accoglienza senza adeguate misure di integrazione hanno, di fatto, alimentato la tensione sociale invece di risolverla. Chi ha favorito approcci troppo permissivi, senza gestire con pragmatismo e realismo le problematiche legate all’immigrazione, non può essere la stessa forza politica che spegne le fiamme della disuguaglianza e del malcontento. La gestione dell’immigrazione deve essere fondata su un’analisi sincera e coraggiosa dei problemi, non su slogan vuoti o soluzioni illusorie.

L’avvento di Trump, per certi versi sorprendente, ma solo per i media e i partiti della sinistra, sta spazzando via l’era del “politicamente corretto” che francamente credo sia giunta a un punto di saturazione e di non ritorno.

Fino a ieri, le parole sono spesso filtrate, controllate e modellate per evitare di offendere chiunque, di fare arrabbiare chiunque, di urtare le sensibilità di una società che sembra sempre più preoccupata di non dire la cosa sbagliata piuttosto che di dire la cosa giusta.

Ma cosa succede quando qualcuno sfida apertamente queste convenzioni? Quando un leader politico sceglie di ignorare le regole non scritte nel linguaggio e si rivolge direttamente alla popolazione, senza fronzoli, senza censure? La risposta è semplice: accade quello che è accaduto con Donald Trump.

Trump, con la sua comunicazione grezza e senza filtri, ha spazzato via anni di retorica politica moderata, fatta di attenzione ai dettagli e al rispetto delle norme sociali, creando un linguaggio diretto e provocatorio che ha scatenato le reazioni più diverse. La sua retorica non ha paura di offendere, di provocare, di spingere al limite le convenzioni politiche e sociali.

Eppure, nonostante le critiche di intellettuali, giornalisti e politici, (ovviamente guarda caso tutti di sinistra) le sue parole hanno trovato un enorme consenso. Non solo tra i suoi sostenitori, ma anche tra coloro che si sono sentiti stanchi di un dibattito pubblico che li ha ignorati, e soprattutto tra chi si è sentito oppresso dalla tirannia del “politicamente corretta”.

La frustrazione che si respira tra gli elettori che hanno scelto Trump non è solo una risposta alle sue politiche, ma una reazione contro un linguaggio che sembrava diventato una gabbia. Il “politicamente corretto” non è più visto come uno strumento di civiltà e rispetto, ma come un freno alla libertà di espressione, un impedimento alla possibilità di dire quello che si pensa, per paura di offendere qualcuno.

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In un contesto in cui il linguaggio ufficiale è stato appiattito da una continua ricerca di consenso, Trump ha fatto leva sulla necessità di rompere questi schemi.

Le sue parole, spesso accusate di essere divisive, hanno trovato invece  eco in un numero sorprendentemente alto di persone che, pur riconoscendo la durezza del suo linguaggio, si sono sentite rappresentate da una comunicazione che non temeva di essere scomoda. Con slogan come “Make America Great Again” e “America First”, Trump ha risvegliato l’orgoglio di milioni di americani che si sentivano dimenticati dalle politiche mainstream.

Ha messo in evidenza un malcontento crescente, soprattutto tra coloro che hanno visto la loro vita peggiorare a causa della globalizzazione, della disuguaglianza economica e di un’immigrazione che percepivano come incontrollata. Quello che sostanzialmente sta accadendo in Italia per colpa della drammatiche politiche della sinistra e dei grillini portate avanti contro il volere del popolo italiani dal 2013 al 2023.

Tornando al tornado Trump va detto che quello che però spesso viene ignorato dai critici del suo linguaggio è che questa retorica non nasce dal nulla. È il frutto di un malessere diffuso, di una disconnessione tra le élite politiche e una parte della popolazione che non si sente rappresentata.

Le parole di Trump, benché brutali, sono il riflesso di una società che ha perso fiducia nelle istituzioni tradizionali e nelle promesse di inclusività e uguaglianza. Il “politicamente corretto” non ha fatto che aumentare il divario, creando un dibattito pubblico sempre più sterile, in cui il rischio di offendere un gruppo era spesso più importante della necessità di affrontare i problemi reali.

In effetti, il problema del “politicamente corretto” non promuove il rispetto o l’inclusività, ma anzi finisce per soffocare ogni forma di discussione genuina e costruttiva. È diventato un veicolo per la censura, un modo per ridurre il dibattito a una serie di luoghi comuni e discorsi omologati, incapaci di affrontare le questioni scottanti che attraversano la nostra società.

Trump ha preso di mira questa ipocrisia, scegliendo di non piegarsi alle regole e, al contrario, di dare voce a chi sente di essere stato silenziato. La sua visione del mondo è chiara: la libertà di espressione non può essere limitata da una vernice di sensibilità che, a lungo andare, diventa una prigione.

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Naturalmente, la comunicazione di Trump ha suscitato critiche feroci, soprattutto da parte di coloro che lo accusano di alimentare l’odio, il razzismo e la divisione. Ma la realtà è che, mentre il “politicamente corretto” ha dato vita a un dibattito pubblico sempre più fragile e sospettoso, le parole di Trump sono riuscite a parlare a una parte significativa della popolazione che si sentiva esclusa. La sua retorica ha dato loro un canale per esprimere il malessere che spesso era tacito, rendendo visibile una realtà che molti non volevano vedere.

In un mondo sempre più polarizzato, dove il dibattito pubblico è più infuocato che mai, è fondamentale chiedersi: vogliamo continuare a vivere in una realtà in cui tutto è filtrato per evitare di urtare qualcuno, o siamo pronti ad affrontare la verità, anche quando è scomodo? Trump, per quanto critico, ha saputo dare una risposta forte e chiara a questa domanda, ribaltando le regole del gioco e portando alla luce un mondo che molti avevano preferito ignorare.

Ora è tempo che anche l’Italia e l’Europa seguano il suo esempio.

A cura di Roberto Conci – direttore Editoriale
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